Oblň cubano
Yoani Sánchez. Los bolos
10 Giugno 2008
 

Dal blog Generación Y

5 giugno 2008

 

 

Evocación de los bolos

La lectura del libro “El séptimo secretario” de Michel Heller me ha traído un montón de recuerdos de la “etapa soviética” de esta islita. En ese entonces, yo no pasaba de los quince años y tengo evocaciones muy sensoriales de aquel coloniaje. Rememoro los caramelos y vituallas adquiridos a través del mercado informal que regentaban las esposas de los técnicos soviéticos. Es curioso que no los llamábamos por el gentilicio de la URSS y mucho menos como “camaradas”, sino que usábamos un sustantivo cuya fonética no permitía los detalles. Ellos eran “los bolos”: informes, toscos, un trozo de barro sin trabajar; macizos y sin gracia; capaces de fabricar una lavadora que gastaba la electricidad destinada a toda una casa, pero que -todavía hoy- funciona en no pocos hogares cubanos.

Muchos de nuestros padres habían estudiado o trabajado en la URSS, pero nosotros no conocíamos la sopa borsht ni nos gustaba el vodka, así que todo lo “soviético” nos parecía pasado de moda, rígido y cheo. Lo que nos paralizaba de ellos era el poder osuno que emanaba de sus gestos, la advertencia velada de que ellos sostenían nuestro “paraíso” caribeño.

Aquella mezcla de temor y burla que nos generaban los bolos todavía se mantiene. Si ahora mismo un turista que pasea por la ciudad no quiere ser molestado por los continuos vendedores de tabacos, sexo y ron, sólo debe musitar algo como “Tavarich”, “Niet ponimayo” y el asustado mercader se esfumará.

 

Yoani Sánchez

 

 

Ricordo dei rozzi

La lettura del libro Il settimo segretario di Michel Heller mi ha portato un sacco di ricordi sulla “fase sovietica” di questa isoletta. In quel periodo infatti, non avevo più di quindici anni e ho ricordi molto sensoriali di quel colonialismo. Rammento le caramelle e le vettovaglie acquistate tramite il mercato informale che amministravano le spose dei tecnici sovietici. È curioso che non li chiamavamo sovietici e tanto meno “camerati”, ma usavamo un sostantivo la cui fonetica non permetteva dettagli. Essi erano “i rozzi”: informi, grossolani, un pezzo di creta non lavorata; robusti e senza grazia; capaci di fabbricare una lavatrice che consumava l’elettricità destinata a tutta una casa, però che - ancora oggi - funziona in non poche famiglie cubane.

Molti dei nostri genitori avevano studiano o lavorato in Unione Sovietica, però noi non conoscevamo la zuppa borsht né ci piaceva la vodka, così come tutto ciò che era sovietico ci sembrava passato di moda, severo e pacchiano. Ciò che ci bloccava era il potere assoluto che emanava dai loro gesti, la avvertenza velata che loro sostenevano il nostro “paradiso” caraibico.

Quella mescolanza di timore e burla che ci producevano “i rozzi” si mantiene ancora. Se adesso un turista che passeggia per la città non vuole essere molestato dai continui venditori di sigari, sesso e rum, deve solo bisbigliare cose come «Tavarich», «Niet ponimayo» e lo spaventato commerciante si volatilizzerà.

 

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

Nota del traduttore: Ho cercato di rendere la definizione intraducibile “los bolos” che i cubani affibbiavano ai russi con il termine “i rozzi”. Letteralmente bolos sono i birilli, ma il termine evoca persone priva di grazia, grossolane, impacciate, veri birilli che rotolano in maniera informe. Tutto questo per i cubani erano i russi. Mai graditi ai Caraibi.


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