Diario di bordo
Meidyatama Suryodiningrat. Pregiudizio a piede libero
27 Aprile 2008
 

I primi musulmani chiamavano la loro fede tazakka, per descrivere gli sforzi del raffinare se stessi negli insegnamenti di compassione e virtù. Il loro credo non era semplicemente concentrato su un canone monoteista, ma era un'esegesi del coltivare un sé responsabile, capace di avere cura.

L'Indonesia si sta rendendo conto che la “religione della pace”, a cui aderiscono l'88% dei suoi cittadini, è stata corrotta dall'intolleranza. La libertà di culto è diventata il diritto al pregiudizio. Nell'anno trascorso (2007) siamo di continuo stati testimoni di uno sciovinismo religioso che lo stato ha, intenzionalmente o no, aiutato a perpetuare.

Le aggressioni al complesso di Ahmadiyah, nell'ovest di Giava, del dicembre 2007, sono un altro esempio di come il nome dell'Islam venga usato per mantenere soggiogati coloro che sfuggono al controllo dei sensali appartenenti alla religione organizzata prevalente. L'articolo 29 della Costituzione emendata del 1945 garantisce la libertà di culto in accordo alla religione o alle credenze di un individuo. Nondimeno, chi si definisce con denominazioni alternative viene incarcerato per blasfemia e filosofi coranici liberali, come Nasr Hamid Abu Zayd, sono minacciati e molestati sino ad essere ridotti al silenzio.

Sebbene l'Islam storicamente non abbia mai accettato una gerarchia clericale, l'Indonesia continua a mantenere con i propri fondi statali il Consiglio indonesiano degli ulema (Ciu), che funge da polizia del pensiero islamica. Si tratta di quell'organizzazione i cui ulema proibiscono a persone di fedi differenti di sposarsi, hanno giudicato intollerabilmente peccaminoso l'avere un presidente donna, hanno dichiarato haram (proibito) il software privo di licenza, hanno decretato che non si devono festeggiare membri di altri fedi nelle loro ricorrenze sacre, e hanno definito “dannati” il liberalismo ed il pluralismo perché, come il chierico membro del Consiglio Umar Shihab ha detto: «Non accettano la poligamia, mentre l'Islam sì».

Il Ciu ha tentato di scansare le proprie responsabilità stigmatizzando gli attacchi ad Ahmadiyah, omettendo il fatto che era stato il loro editto a creare tutto quell'odio. Ci sono dozzine di differenti sette islamiche nel mondo. È il Ciu così divino da poter dichiarare gli sciiti, i sufi, gli zaidi, gli alawi o i nizari “non-islamici? Quale presunzione li spinge a dichiarare che l'Aga Khan e gli ismaeliti sono meno devoti di loro?

Lo stato ha perpetuato queste pratiche tiranniche cedendo alle richieste del Ciu in materia religiosa, e discrimina le persone appartenenti a «fedi non riconosciute» complicando le richieste per ottenere la registrazione all'anagrafe, i certificati di nascita e le licenze di matrimonio. Diverse leggi hanno esteso il potere di questo “nuovo ordine” permettendo a funzionari statali di investigare su gruppi che aderiscono a credi mistici.

I padri fondatori dell'Indonesia venivano da diverse origini etniche, ideologiche e religiose. Il primo principio di Pancasila riconosce il “teismo” senza dare ad esso nessuna particolare denominazione, né incorpora la religione nelle infrastrutture politiche. Abbiamo dimenticato la nostra storia, e sembriamo regrediti ai giorni oscuri dell'Inquisizione in Europa, quando le persone venivano condannate per eresia. Qualcuno continua a dire che la visione laica-pluralista è composta da favole liberal-democratiche occidentali, ed è estranea ai valori indonesiani. Eppure persino Mohammad Hatta, uno dei padri fondatori della nazione, in una lettera a Johannes Post del 1939, pur avanzando critiche alle pratiche delle democrazie occidentali dichiara di «sperare che lo spirito della democrazia, alla fine, prevarrà».

Sarebbe ora che la semi-sponsorizzazione da parte del governo di organizzazioni religiose come il Ciu cessasse, e che venisse ribadita la separazione tra religione e stato. Questo non significa che lo stato non debba avere valori etici, ma che dobbiamo assicurarci la protezione della nazione da ogni dogma, religioso o no. L'Indonesia è stata costruita come stato di diritto e i suoi cittadini devono essere tenuti responsabili rispetto alla legge, e non rispetto al loro livello di devozione. Sarebbe un giorno ben triste quello in cui l'Indonesia diventasse come la Malesia, in cui è proibito convertirsi eccetto che all'Islam. La separazione tra sunniti e sciiti non fu dovuta inizialmente a divergenza di interpretazioni teologiche, ma ad una lotta per chi doveva detenere il potere politico e la leadership: la pervicacia delle attuali religioni organizzate ha ragioni simili. L'odio delle sovrastrutture religiose (siano esse la Chiesa cattolica romana, o il Consiglio indonesiano degli ulema, o altre) per le credenze che si situano fuori dal loro dominio, ha a che fare con una potenziale perdita di potere.

Si tratta di un potere che può essere sostenuto solo attraverso la presunzione di essere gli unici nel giusto, e dalla demonizzazione di chiunque altro. Questi chierici, tuttavia, non sono stati democraticamente eletti a rappresentare qualcuno, non sono legislatori. Non vi è alcun obbligo per lo stato di legittimare la loro presenza e di sostenere le loro attività con fondi statali. Le minacce mortali che reclamano autorità sugli insegnamenti divini riducono l'idea di Dio ad una definizione infantile. Vi è certamente la necessità di tenere un occhio sulla nascita di nuovi culti o sette in seno alla società, ma questo può essere fatto in un modo che permetta ad esse di esercitare liberamente le loro attività: se ve ne è il bisogno effettivo, si può chiedere che i movimenti religiosi siano iscritti ad un registro, al solo scopo di prevenirli dall'essere sfruttati da gruppi criminali.

Gruppi come Ahmadiyah, per esempio, devono essere perseguiti qualora i loro atti causino danni fisici, distruggano proprietà o incitino all'odio. La validità o meno dei loro insegnamenti non può aver valore in un tribunale.

La prima parola, e probabilmente la più bella, data all'Islam dal Profeta non è jihad, ma iqra (leggere), il che implica l'impiego dell'intelligenza nello sforzo per l'ijtihad, e cioè per il pensiero indipendente e l'interpretazione razionale.

I conservatori sostengono che solo i chierici e coloro che essi addestrano hanno il diritto di impegnarsi nell'ijtihad. Ma se ci neghiamo l'uso dei nostri cervelli, stiamo rifiutando la definizione che distingue gli esseri umani evoluti dai nostri antenati scimmie. La fede cieca, quella che usa le religione ma non l'intelletto, fa di noi niente di più di un gruppo di scimmie organizzate.

 

Meidyatama Suryodiningrat

(traduzione di Maria G. Di Rienzo)

 

 

Meidyatama Suryodiningrat è giornalista di The Jakarta Post.

 

 

da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 27 aprile 2008


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