Maria Lanciotti: “Tempo di abbracciare”. Prendendo spunto dal libro dell’Ecclesiaste
04 Maggio 2008
 

1 Ogni cosa ha la sua stagione, e ogni azione sotto il cielo ha il suo tempo.

C’incontrammo per la prima volta a settembre, quando le foglie dei platani iniziavano a cambiare colore  prima di cadere.

Io avevo undici anni, i capelli lunghi e le lentiggini e i denti a seghetta, una cartella nuova di cuoio e le scarpe troppo grandi per i miei piedi.

Tu avevi dodici anni, il ciuffo dei capelli neri che ti ricadeva sugli occhi neri e la faccia pallida e la bocca stretta, un elastico per i libri e una bicicletta da uomo.

Entrammo insieme nel portone della nostra scuola e fu come infilarsi in un tunnel senza uscita.

Nemmeno una parola corse tra di noi. Nemmeno un cenno. Solo sguardi circospetti, e tu che mi stavi alle spalle, seduto dietro di me nell’aula con i soffitti altissimi e i finestroni che la inondavano di luce, avevi sempre le mani nascoste sotto il banco, mentre  mi bucavi la nuca col tuo sguardo bruciante che si scioglieva d’un tratto in un battito di ciglia colmo di piacere.

  

2 Vi è tempo di nascere, e tempo di morire; tempo di piantare, e tempo di divellere ciò che si è piantato;

Era un sentimento tenero e dolce come un cucciolo, ma tu ne avesti paura e lo tenesti legato in una cuccia segreta.

Io non vedevo più girare intorno a me quello sguardo umido e invaghito e spaventato, e le tue mani le tenevi allo scoperto, strette sul banco, mentre  fissavi oltre la mia testa il muro che non si sbriciolava sotto la pressione della tua violenza, come avresti voluto.

Uscivamo insieme dal portone della nostra scuola, e ci perdevamo nei vicoli intorno alla piazza del mercato, con la paura e la voglia di ritrovarci come per caso faccia a faccia e fingere di non conoscerci.

Il mio terreno era fertile, già chiedeva la tua aratura e il tuo seme, già chiedeva le tue mani a raccogliere i frutti che pendevano da tutti i miei rami, già chiedeva di essere rivoltata al sole dalle tue braccia robuste, dai denti e dalle lame del tuo desiderio sguainato.

Tu eri innamorato di quella terra, ma non ne sfiorasti nemmeno una zolla con le dita.

La terra ti prende l’anima e tu lo sapevi, tu figlio di contadino povero lo sapevi, tu che eri stato costretto a lavorare la terra del padrone  fin da quando eri bambino lo sapevi, tu che non potevi mangiare i frutti del tuo lavoro, che appartenevano al padrone, lo sapevi, che la terra ti ruba l’anima e si disseta al tuo sudore e non smette mai di pretendere le tue premure, la tua completa dedizione.

Tu voltasti le spalle a quella terra, che pure ti chiamava con la voce imperiosa del sangue, del primo sorso di latte, del primo odore di femmina impresso nelle tue carni e nella tua memoria. Non seminasti nulla e se avessi potuto l’avresti arsa, quella terra,  l’avresti sparsa al vento, e solo sui sassi avresti posato il capo per riposare. Sui sassi che non ti chiedono l’anima perché non hanno un’anima. Almeno così si crede.

Ma io non ero fatta solo di terra, e lo avresti capito se solo avessi avuto il coraggio di affondare la testa fra le mie cosce e le mie mammelle, liberandoti di ogni pregiudizio.

Avresti capito che la terra per essere ha bisogno del cielo e delle sue benedizioni. 

  

3 Tempo di uccidere, e tempo di sanare; tempo di distruggere, e tempo di edificare;

Avresti voluto farmi a pezzi, quando il mio corpo divenne morbido e prorompente e lanciava richiami col suo odore selvaggio e pungente. Avresti voluto stringermi fino a stritolarmi e mangiarmi e bere come in sacrificio, in comunione assoluta. Ma non mi avresti mai toccato con le tue mani per tema di scottarti al fuoco della passione, che in me divampava alto e scintillante, e di me sola si nutriva, e di me sola si rigenerava.

Tu a quel fuoco di scaldavi e ti esaltavi, ma non vi mettesti mai un legno. Ma quel fuoco lo avevi appiccato tu, e senza di te non avrei provato forse le delizie e lo spasimo di bruciare viva senza mai consumarmi.

Ti pregavo, dammi almeno un sorso d’acqua, dammi almeno un bacio. Fammi almeno la promessa di un bacio. Almeno la promessa di una promessa d’un bacio.

Io bruciavo amore mio nell’inferno dei tuoi occhi profondi e ardenti come tizzoni accesi. Io bruciavo nel guardare le tue mani gentili e perfette per le carezze più intime, più invasive e suadenti. Io bruciavo nell’immaginare il tuo corpo nudo, la tua pancia il tuo petto, le tue gambe i tuoi piedi, i tuoi fianchi la tua schiena, il tuo collo le tue orecchie, la tua bocca il tuo pene.

Tu ti murasti vivo per non sentire il mio pianto e il mio lungo canto, tu ti uccidesti amore mio pur di uccidere me.

    

4 Tempo di piagnere, e tempo di ridere; tempo di far cordoglio, e tempo di saltare;

Un giorno smisi di piangere e cominciai a ridere di te. Il riso mi usciva amaro dalla bocca e si riversava sul tuo nome e sulle tue fattezze con un suono argentino che ti riportava alla mente la fanciullina che ti aveva sedotto senza saperlo al primo impatto, e a sua volta sedotta ti aveva offerto il suo canestrello pieno di fragoline boschive senza che tu mai ne prendessi una. Il riso mi usciva festoso come uno scampanio di pasqua e ti scuoteva le membra riportandoti al tempo di quella primavera che passò senza che tu cogliessi nemmeno un fiore di quel prato che era la mia pelle, che si accendeva di mille colori e profumi solo pronunciando il tuo nome.  Il riso mi usciva lugubre come un rintocco a morte di campane e ti rimbombava nella testa ricordandoti il valore del  tempo e quanto ne avessi sprecato e come nulla ormai sarebbe stato più recuperabile, ora che la mia fine e la tua sono ormai vicine.

Ora che il mio corpo e il tuo corpo hanno perduto lo splendore e il vigore della giovinezza, ora che non saprebbero più saltare come caprioli avvinghiati per i monti e le valli dove si annida più intenso il piacere dei sensi, l’estasi dell’amore carnale congiunto all’intesa complice delle anime che si specchiano l’una nell’altra, senza mai stancarsi del gioco dell’identificazione e della distinzione e della unificazione.

   

5 Tempo di spargere le pietre, e tempo di raccorle;  tempo di abbracciare, e tempo di allontanarsi dagli abbracciamenti;

Non ho più sassi da lanciarti contro, amore mio. Non ho più forza nel braccio per colpirti come vorrei. E non voglio più raccogliere pietre, pensando di poterne fare ancora qualcosa. Sono stanca di pietre. Le pietre del tuo silenzio, taglienti  e sanguinose. Le pietre del tuo isolamento, inamovibili e invalicabili.

Non ho più abbracci per te, amore mio.  I miei abbracci per te sono morti come i rami del melo colto dalla malattia,  come i rami del pero colto dalla vecchiaia.

Anche le tue braccia sono morte, e pendono tristi dalle tue spalle curve.

Mi allontano da te, sogno della mia vita, mentre mi allontano dalla vita stessa. Dolci carezze mancate, amplessi immaginati di noi furiosamente allacciati per raggiungere insieme la vetta di un orgasmo che ci avrebbe innalzati fino al cielo e sprofondati fino agli inferi, un orgasmo infinito come questo amore senza principio.

Non mi allontano da te, amore mio. Resto a vegliare le tue spoglie e le mie, e quelle dell’amore che mai sbocciò sotto questo cielo che piange con noi la nostra perdita irrimediabile.

 

Maria Lanciotti


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276