Diario di bordo
Valter Vecellio. E ora per un vero Partito Democratico. L’altra casta, il Sindacato
24 Aprile 2008
 

«Le allegre finanze del sindacato: la sola CGIL ha un giro d’affari valutato in un miliardo di euro. I delegati delle tre centrali sindacali sono settecentomila, sei volte più dei carabinieri. I loro permessi equivalgono a un milione di giornate lavorative al mese. E costano al sistema-paese un miliardo e 854 milioni di euro l’anno». Di cosa si tratta? Dello “strillo” di un libro da leggere, e proprio per questo forse non viene segnalato: L’altra casa. L’inchiesta sul sindacato. Privilegi, carriere, misfatti e fatturati da multinazionale, di Stefano Livadiotti (Bompiani, pagg.236, 15 euro).

Livadiotti scrive per l’Espresso, e da oltre vent’anni si occupa di politica e di economia. Picchia forte fin dalle prime pagine: «I numeri parlano chiaro. E spiegano che Gugliemo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, insieme ovviamente ai loro predecessori, sono riusciti nella straordinaria impresa di dilapidare il patrimonio di credibilità conquistato negli anni dalle loro insegne… L’immagine del sindacato come di un soggetto responsabile, capace di farsi carico degli interessi generali del paese, agli occhi degli italiani si è dissolta ormai da tempo. Lasciando il posto a quella di un’arrogante casta iperburocratizzata e autoreferenziale che sotto la guida di funzionari in carriera sollecitati dalla voglia del grande salto nel mondo della politica, ha via via perso il contatto con il paese reale. Un apparato che, presentandosi come legittimo rappresentante di tutti i lavoratori, in nome di una concertazione degenerata in diritto si veto pretende di mettere becco in qualunque decisione di valenza generale. E che in realtà fa gli interessi dei soli suoi iscritti, sempre più marginali rispetto al sistema produttivo nazionale, ai quali sacrifica il bene collettivo, mettendosi ostinatamente di traverso a qualunque riforma rischi di intaccare uno statu quo fatto di privilegi…» (pagg. 5-66).

 

Andiamo a rileggere pagine ormai ingiallite di quotidiani e di riviste, per recuperare la memoria degli insulti e delle “scomuniche” che venivano scagliate contro chi “osava” dire quello che Livadiotti dice oggi? Nel migliore dei casi ci si guadagnava una patente di provocatore, di nemico del popolo lavoratore, di farabutto di cui diffidare. Vorrà però dire qualcosa che un sondaggio commissionato da www.lavoce.info, il sito coordinato dall’economista Tito Boeri, rivelava che solo il 5,1 per cento degli interpellati si sentiva adeguatamente rappresentata dal sindacato. Il 61,6 per cento si dice invece convinto che il sindacato non faccia i suoi interessi. L’autore de L’altra casta fa sua la riflessione del professor Bernardo Giorgio Mattarella, docente di diritto amministrativo: «La base sindacale rispecchia sempre meno l’articolazione della società e coincide sempre meno con le categorie più deboli: la frammentazione e competizione tra sindacati rende poco conveniente per il singolo sindacato, farsi carico degli interessi generali, rischiando di perdere iscritti».

Chissà cosa ne penserà, Sergio Cofferati, di questo libro. Quel Cofferati che prima di diventare sindaco di Bologna, da segretario della CGIL bollò con parole di fuoco le proposte dei radicali sulle questioni del lavoro. Quella di Livadiotti è un’analisi molto simile a quella dei radicali, per tanti versi sovrapponibile; meriterà un ideale rogo, il suo libro. Si racconta infatti di Pubblica Amministrazione e di Alitalia, di ferrovie e di mercato del lavoro; è impressionante l’elenco “breve”, delle proposte per cercare di risolvere questi casi, che nel solo 2007 sono state cassate dai “Signori NO del sindacato”, con un riflesso reazionario condizionato che scatta perfino quando, nello stallo del contratto delle tute blu, la FIAT concede anticipi di trenta euro agli operai: decisione definita “ridicola” e “sciocca” da Gianni Rinaldini, leader della FIOM; “ostile” e “grave” da Giorgio Caprioli, leader della FIM-CISL; “violenta” da Paolo Nerozzi, segretario generale della CGIL; “risibile” dal segretario della UIL Angeletti. Stessa reazione quando è stato Diego Della Valle a concedere un premio di 1.400 euro ai suoi 1.600 dipendenti. La conferenza stampa immediatamente convocata dal sindacato era all’insegna di: “Per un Tod’s di pane. L’altra faccia di Diego Della Valle”. La CGIL ha parlato di “provocazione”, sostenendo che Della Valle ha «una concezione padronale, tipicamente ottocentesca». Naturalmente poi non ci si deve stupire se operai e dipendenti in genere si ritrovano più nelle proposte degli imprenditori che in quelle del sindacato, e se quando si deve andare a votare si riconoscono più in Berlusconi e Bossi che in Veltroni.

 

Il libro di Livadiotti racconta come in Italia «chiunque può inventarsi una sigla e proclamare uno sciopero. E infatti succede. Nel pubblico impiego, dove esiste una contabilità, ci sono decine di finte organizzazioni con un solo iscritto: il segretario. Tutta colpa della mancata attuazione di un articolo della Costituzione, che non è stato abrogato, ma non piace alla CISL e alla UIL». Racconta come «negli altri paesi lo sciopero deve essere approvato dai lavoratori. Da noi c’è una legge solo per i servizi pubblici essenziali. Così i sindacati, in perenne concorrenza tra loro, ne proclamano cinque al giorno. E i conti non tornano: in Danimarca ci sono un terzo di vertenze in più, ma le astensioni dal lavoro sono venti volte di meno». Con un risultato che costituisce una beffa: «Racconta Pietro Ichino che i ferrovieri italiani scioperano in media due volte al mese, mentre quelli svizzeri mai. E questi ultimi guadagnano più del doppio».

Il libro di Livadiotti racconta che ogni anno in Italia ci sono circa un migliaio di morti sul lavoro: «Il doppio della media di Inghilterra, Germania e Francia. I sindacalisti, fischiati in piazza (come nei giorni successivi al tragico rogo alla Thyssen-Krupp a Torino, dove i sindacalisti vennero accolti da bordate di fischi e invettive: “Buffoni”, “Venduti”, “Parassiti”, “Andate a lavorare”), puntano il dito sulla mancanza di controlli. Ma sono stati loro, dieci anni fa, a impedire il trasferimento negli ispettorati dei travet che risultavano di troppo dopo l’abolizione del monopolio pubblico sul collocamento». Racconta dello “spettro del precariato”: «È quello agitato da Epifani. Il capo della CGIL s’è lanciato in una crociata alla Beppe Grillo contro la flessibilità sul mercato del lavoro. E tace sul fatto che, dopo le leggi Treu e Biagi, in dieci anni l’occupazione è cresciuta di quasi il 13 per cento. Perché a lui e ai suoi soci conviene, per motivi di bottega, difendere il posto fisso». Leggete un po’ a pagina 61:

«Con buona pace di Paolo Ferrero, ministro della solidarietà sociale del governo Prodi, che ha individuato chissà come 30 milioni di famiglie precarie, le statistiche descrivono un altro quadro. Tra il 2003 e il 2007 i contratti a tempo indeterminato sono aumentati del 3,5 per cento. Nel 2006 l’incidenza del lavoro non a tempo indeterminato sul totale degli occupati era a quota 9,8 per cento, ben al di sotto della media europea. Il lavoro interinale, che dopo la riforma Biagi si chiama somministrazione di lavoro a tempo determinato, riguardava solo lo 0,64 per cento del totale degli occupati (che peraltro trovano un impiego fisso entro due anni), contro il 2,2 per cento, della UE e il 5 per cento dell’Inghilterra. I lavoratori part time erano al 10 per cento, la metà del livello continentale. E, tra il 2000 e il 1 gennaio del 2005, è diminuito di 316.600 unità l’esercito dei lavoratori in nero (stima dell’agguerrito centro studi dell’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre. “La quota di lavoro precario rispetto al totale dell’occupazione ha incominciato a crescere in Italia dalla fine degli anni Settanta”, spiega Ichino, “e quella della crescita ha subito una battuta di arresto proprio negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge Biagi».

 

Tutto da leggere, poi il capitolo relativo alle “allegre finanze dei sindacati italiani”. Si racconta come le tre confederazioni siano «l’ottava azienda privata italiana. Hanno un apparato tentacolare, dove solo i dipendenti diretti sono ventimila. E’ un fatturato da multinazionale,, alimentato da un sistema occulto di finanziamenti statali. Ecco perché si sono sempre rifiutate di rendere pubblici i loro bilanci». Non solo. Nelle pagine 71-76 si racconta un qualcosa che ci dovrebbe essere familiare, e che per aver “osato” dirlo ha procurato ogni sorta di accusa: “La grande truffa della tessera”: «Un miliardo. È la cifra che aziende ed enti previdenziali versano ogni anno a CGIL, CISL e UIL trattenendola da stipendi e pensioni degli iscritti. Che spesso, magari senza saperlo, continuano a pagare per molti mesi anche dopo aver ritirato la loro delega al sindacato». E infatti la battaglia radicale (pagg. 72-73) viene ricordata:

«Nel 1995 Marco Pannella ha tentato di far saltare il meccanismo, proponendo un referendum che abolisse la trattenuta automatica dalle busta paga. Il 12 giugno la maggioranza degli italiani s’è schierata al fianco del vecchio leader radicale. Il 57,1 per cento ha partecipato al referendum. E 56 votanti su 100 si sono espressi per l’abrogazione dell’obbligo alla trattenuta. Un colpo durissimo per il sindacato. “Vogliono ridurci alla colletta”, ha commentato acido Cofferati, all’epoca numero uno dei sindacalisti italiani. Ma il momento di sbandamento è durato poco. CGIL, CISL e UIL hanno semplicemente deciso di ignorare l’esito della consultazione popolare. Uscita dalla porta, la trattenuta è rientrata dalla finestra. Non più prevista dalla legge, è stata salvata dai contratti collettivi, con la complicità dunque degli imprenditori, che subiscono dei costi ma non hanno alcuna voglia di mettersi a menare le mani con i sindacati».

 

Si racconta, nel libro di Livadiotti, della «miniera d’oro» costituiti dai Centri di assistenza fiscale («una montagna di soldi, tutti esentasse»); della “riserva di caccia costituita dai patronati («Hanno il monopolio delle pratiche con gli enti previdenziali, che vale un giro d’affari da 350 milioni l’anno al riparo da tasse e controlli»). E, in particolare, si raccomanda la lettura del capitolo “Casa mia, casa mia”.

Perché è sacrosanto inveire e mobilitarsi contro l’invereconda disposizione che esenta dal pagamento dell’ICI le proprietà degli enti ecclesiastici; però se fa torcere le budella che non paghi l’ICI qualsiasi immobile su cui sia stato apposto un crocefisso, analoga reazione si dovrebbe avere quando a non pagare sono proprietà del sindacato: «Le confederazioni sindacali sono tra i maggiori proprietà immobiliari italiani. Possiedono centinaia di migliaia di metri quadrati. Li hanno ricevuti in regalo alla fine degli anni Settanta dallo Stato. Che le ha pure esentate dal pagamento dell’ICI». Andiamo avanti?

 

Il capitolo a pagina 87 comincia così:

«Quando prendono in affitto dei locali dallo Stato o da qualche ente locale, pagano una pigione simbolica…ma in genere i sindacati non hanno bisogno di ricorrere al mercato delle locazioni. Il loro principale asset è infatti proprio uno sterminato patrimonio immobiliare. Che CGIL, CIS e UIL hanno avuto in dono dallo stato. Sì, proprio in dono. A stabilirlo è stata la legge numero 901 del 18 novembre 1977, che, a decenni dalla soppressione dell’ordinamento corporativo, ha attribuito ai sindacati all’epoca esistenti il patrimonio delle disciolte organizzazioni sindacali fasciste. La stessa legge si è preoccupata, come al solito, di esentare i nuovi proprietari da qualsiasi tassa o imposta relative al trasferimento dei beni».

Di che cosa si sta parlando esattamente? A quanto pare non lo sa bene nessuno, se è da prendere per buona l’affermazione di Lodovico Sgritta, amministratore della CGIL: «Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco, ma deve trattarsi di una cifra impressionante». E deve essere davvero un ottimo amministratore, uno che ammette di non conoscere il patrimonio che pure amministra. Ad ogni modo (pag. 89):

«…la CGIL dichiara di avere, sparse per tutto il paese, qualcosa come tremila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. E lo stesso palazzo che ospita il quartier generale, in corso d’Italia, è in una delle zone più esclusive di Roma. La CISL di sedi ne vanta addirittura cinquemila, tra confederazione, federazione nazionali e diramazioni territoriali, di nuovo quasi tutte di proprietà. La UIL è l’unica che ha fatto un po’ d’ordine, concentrando il grosso degli investimenti (si fa per dire) sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento… Un calcolo attendibile è quindi impossibile. L’unica certezza è che sul suo incredibile patrimonio immobiliare il sindacato non versa mezzo euro di ICI nelle casse dei comuni…».

Il sindacato non paga l’ICI perché l’articolo 7 (c’è sempre un articolo 7 di mezzo!) lettera I del decreto legislativo n. 504 del 30 dicembre 1992, esenta dal pagamento dell’ICI gli immobili di enti non commerciali «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Essendo, notoriamente, CGIL, CISL e UIL dedite ad attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, ecco perché non pagano.

 

Ve lo ricordate Ichino, quando scrisse il suo A che cosa serve il sindacato?. Già era costretto a vivere sotto scorta, per le minacce dei terroristi, che già avevano accoppato Massimo D’Antona e Marco Biagi. Quel libro venne letteralmente messo all’indice, dal sindacato: «Chi lo conosce lo evita», sentenziò su Il Manifesto il leader della CGIL funzione pubblica Carlo Podda. Questo di Livadiotti, che denuncia gli altarini della casta sindacale, si vedrà riservato, perlomeno, analoga scomunica. Ragione in più per leggerlo. Una dopo l’altra, le varie “componenti” della casta italiana vengono ben descritte e “raccontate”: s’è cominciato con i politici, poi con quelle vaticane, i giornalisti, i magistrati; ora il sindacato. Fa ben sperare. E il silenzio ostile che accoglie questi libri-inchiesta è motivo di cauto ottimismo.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 23 aprile 2008)


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