Diario di bordo
Maria G. Di Rienzo. Il coltello nel ventre
22 Aprile 2008
 

Gli stupratori non nascono tali. Vengono “costruiti”, addestrati, come si addestrano i soldati ad uccidere. E la cultura che fa di un uomo uno stupratore è la stessa che “fa” noi tutti/e. Non è una questione femminile, è una questione condivisa, e come tale va affrontata. Molti uomini pensano, e sono sinceri, che la violenza sessuale, quella domestica ed il sessismo siano problemi altrui: segnatamente oggi, dopo gli ultimi fatti di cronaca, è problema/responsabilità dei barbari invasori stranieri. Sono dipinti un po' come gli Orchi di Tolkien, forse non malvagi in origine ma ormai irrecuperabili, spaventapasseri mediatici, fasci di impulsi incontrollati, marionette guidate da fili di odio, massa di pupazzi insensibili, privi di autocontrollo, che seguono semplicemente la pulsione violenta ovunque essa li conduca, anche quando finirà per schiantarli nel processo. Ma Tolkien ha molto chiaro che c'è un manovratore di questi burattini, un potere più grande e più distruttivo di loro stessi, che li istiga con la seduzione delle parole (gli imbattibili Uruk-hai!) e la promessa di impunità.

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Il linguaggio sessista, i modelli sessisti, la gerarchia di valore per genere, ed il loro logico compimento, la violenza sessuale, promettono agli uomini potere e impunità. Sì, ci sono le leggi, possiamo persino inasprirle, ma la condanna morale va ancora principalmente alla donna. Cosa ci faceva là, perché era vestita in quel modo, ci ha ballato insieme, ci è andata a cena, avrebbe dovuto capire... Cosa dovremmo capire, spiegatemelo. Che dobbiamo smettere di provar gioia nella vita, di aver voglia di conoscere persone nuove, di lavorare, di studiare, di andare per strada, di vestirci come ci pare, di avere desideri, di innamorarci, di esistere?

Alla maggior parte degli uomini non salterebbe mai in testa di esaminare il proprio comportamento e di misurare il continuum tra il fare “apprezzamenti” pesanti ad una ragazzina ed il violentarla, o il rapporto fra il valutare, in una delle nostre ong “eque e solidali”, i seni della volontaria (episodio realmente accaduto) quale requisito per l'assunzione ed il piantarle un coltello nel ventre prima di stuprarla. Eppure la connessione è diretta, e chiara come la luce del giorno.

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Se la questione venisse almeno nominata (ma non si può, sono le femministe a farlo e le femministe sono molto noiose) ci sarebbe il permesso simbolico di affrontarla e di vedere la verità. Quanto siano seccanti queste personagge lo aveva capito bene il giovane uomo che uccise quattordici studentesse e ne ferì altre tredici all'Ecole Polytechnique, la facoltà di ingegneria dell'Università di Montreal in Canada. Stava ben attento a non colpire gli uomini. Aveva spesso ripetuto questo mantra, prima di tradurlo in azione: “Le femministe hanno rovinato la mia vita”. Ha avuto la sua gloria, l'eroe, è passato alla storia come l'autore del “Massacro di Montreal”, uno splendido riscatto per un'esistenza distrutta da qualche lurida cagna che gli aveva detto no, ripetuto no, e ribadito che no significa no. Ma questo dev'essere uno dei “mostri” colti da raptus sulla via di Damasco, non ha a che fare con noi, ci mancherebbe. E se ad essere aggressivo e volgare è il tuo compagno di vita, di scuola, o di lotta, be', quello stava solo scherzando. Non si spingerebbe mai a violentarti. Sta semplicemente, con il suo comportamento, e con la tacita accettazione del mito di una mascolinità superiore perché violenta, continuando a nutrire chi lo farà. Sta' tranquilla, e passagli il fazzoletto quando si lamenta della propria sensibilità urtata da femmine moleste. Cosa credi, che non ci sia passata nessuna prima di te? A me il buon compagno cominciò a parlare di quanto era infelice con sua moglie, e non fermò l'auto dove gli avevo chiesto di portarmi. Stavamo andando, invece, verso una comoda e solitaria boscaglia. È vero, gli ho tolto le chiavi dal cruscotto e le ho buttate dal finestrino, molto violento da parte mia, più della sua mano untuosa sul mio ginocchio e dei probabili sviluppi di quel viaggio in auto. Ma visto che doveva correre in giro a recuperare le chiavi sono potuta scendere intatta, se si eccettuano la paura, la rabbia, e il gran cumulo di insulti vomitatimi dietro dal sensibile e sofferente individuo.

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È possibile che a più di vent'anni di distanza io debba ancora parlare di questo? È possibile che i metodi, le tecniche, le giustificazioni, e cioè il cumulo di spazzatura ideologica che copre la violenza sessuale sia sempre lo stesso? Fino a che l'equazione “mascolinità = violenza” resta la forma egemonica di socializzazione maschile proporre un modello alternativo, di partnership, è una delle azioni più potenti che possiamo intraprendere a lungo termine.

Abbiamo bisogno di “mascolinità sostenibile” e di una “decrescita felice del machismo”. Il femminismo ha parlato alle donne mostrando ed aprendo loro altre possibilità; ha detto senza timori e con argomentazioni solide: questa cultura è nociva, ferisce donne ed uomini, uccide, rade al suolo, inquina, devasta. Deve cambiare. Tu puoi cambiarla. È ora che anche gli uomini si impegnino in questo processo, che elaborino modelli diversi, per un cumulo di buone ragioni oltre quella imprescindibile del fermare la violenza di genere. Una su tutte: il nesso tra il modello dominatore maschile e le tecnologie nucleari, biologiche, chimiche, la Terra non riesce più a reggerlo; a livello simbolico (ed è un livello terribilmente potente) è il produttore principale del surriscaldamento globale, dei conflitti armati, dell'economia di rapina eccetera.

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I violentatori sono uomini che si identificano in maniera sproporzionata con i valori “mascolini tradizionali” (quelli che passano con tranquillità nei media, nei programmi scolastici, negli sport soprattutto di contatto, e filtrano felici in tutte le sub-culture presenti in Italia) e sono particolarmente attenti a ciò che gli altri uomini pensano di loro. In ragione di ciò, oscillano fra un'arroganza insopportabile ed un'autostima bassissima, e quando i dubbi e i sentimenti di esclusione arrivano al culmine hanno il nemico da punire a portata di mano. Forse non possono prendere a cazzotti quel tizio che li ha maltrattati all'ufficio di collocamento o li ha derisi in cantiere, ma possono “mettere sotto” una donna. La moglie o la prima che incontri per strada va bene lo stesso, tanto “sono tutte puttane”.

Moltissimi altri uomini e ragazzi, invece, sono a disagio rispetto a quanto è stato insegnato loro sull'essere “maschi”, con il suo corollario di omofobia, eterosessismo e stupri, vorrebbero uscirne, ma spesso il prezzo da pagare (scherno, umiliazione, solitudine) è troppo alto. E anche se si rivolgono a socialità “alternative” per appagare il bisogno di appartenenza, in esse ritrovano fin troppo spesso i medesimi schemi dell'interazione femmina/maschio. Johan Galtung non è una fastidiosa femminista, vero? Bene, assieme alle sue analisi di altro tipo, gli uomini potrebbero cominciare a valutare la sua affermazione che la misoginia (l'odio per le donne ed il “possesso” delle donne) è uno dei più grandi problemi mondiali che abbiamo.

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Abbiamo bisogno di quella campagna nazionale contro la violenza di genere che io chiedo da un bel pezzo. E abbiamo bisogno di coinvolgere in essa quanti più soggetti è possibile. Possiamo cominciare da dove localmente abbiamo più risorse. Qualche gruppo o rete potrà portare avanti programmi educativi, per esempio. Se gli uomini e i ragazzi apprendono i meccanismi della socializzazione di genere possono muoversi oltre l'usuale modulo difensivo che adottano quando viene loro proposta la questione della violenza sessuale. Si tratta di offrirgli l'opportunità di liberarsi dai concetti strangolatori del paradigma patriarcale, e di abbracciare più largamente la propria umanità. Certo, comporterà impegno e fatica. Come ha detto un mio amico: “Ognuno di noi deve faticare durante il viaggio che collega la sua testa al suo cuore. È il viaggio più lungo e difficile di tutti, ma di certo è quello che ti offrirà la ricompensa maggiore”.

Diversi tipi di associazioni possono intervenire con iniziative pubbliche di qualsiasi tipo per far conoscere la realtà della violenza di genere nel nostro paese; possiamo costruire delle coalizioni di “pronto intervento” che facciano un gran rumore ogni volta in cui i media biasimano la vittima di stupro, denigrano donne e ragazze, sessualizzano pre-adolescenti, usano linguaggi sessisti, incoraggiano o celebrano la violenza, e così via.

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Mi dispiace dirlo, ma credo che noi femministe dovremmo diventare ancor più moleste, importune e seccanti di quanto siamo già, molto, molto di più.

Per le ragazze e le donne che soffrono in questi giorni e di cui abbiamo saputo. Per quelle di cui non sapremo mai. Per gli uomini e i ragazzi che amiamo e per quelli di cui non vorremmo più aver paura.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 22 aprile 2008)


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