Diario di bordo
Mario Ciancarella. Errori di prospettiva (Seconda parte)
20 Aprile 2008
 

Sarebbe stato sufficiente diffondere la conoscenza della degradante invasione dei mercati del sud del mondo da parte delle multinazionali occidentali in nome della globalizzazione, e del loro sistematico sfruttamento della forza lavoro con la negazione di qualsiasi garanzia sociale, (senza bearci e tranquillizzarci di fronte alle resistenze a credere e comprendere, con tanta presunzione perché “noi tanto certe cose le sapevamo già”), per contribuire al fine che i lavoratori italiani avessero la possibilità di capire, interrogarsi e scegliere diversamente, ma soprattutto consapevolmente.

Il dialogo “per convincere” di cui parlava Togliatti ha tuttavia anche regole precise per essere incisivo ed efficace. Deve basarsi sul rispetto del nostro interlocutore e non deve essere una pura esibizione della nostra diversità nella quale ci beiamo e rispecchiamo, come tante nostre dimostrazioni che si sono rivelate pura autoreferenzialità. Deve divenire occasione ed opportunità di cambiamento di opinione per l’altro, attraverso l’ascolto delle sue ragioni, la comprensione delle sue esigenze, per dimostrare con molta serenità che possono esserci strade diverse e alternative per soddisfarle se solo non si fondano sul puro egocentrismo ma hanno un fondamento di sensibilita’ sociale e di passione civile.

Ed invece abbiamo lasciato che la “sicurezza” fosse un argomento esclusivo della destra e non abbiamo saputo coniugarla come “sicurezza sociale, sicurezza del posto di lavoro, sicurezza sul posto di lavoro, sicurezza dei diritti e delle tutele” per tutti. Non abbiamo saputo parlare concretamente e credibilmente di “quell’altro mondo possibile” che pure andavamo sbandierando, ma senza avere capacità di riempirlo di temi e di reali contenuti, di modalità, di strumenti e di percorsi. La rivoluzione ci è dunque rimasta nella testa, ma non ha saputo scendere nel cuore e trovare le nuove necessarie declinazioni per apparire condivisibile, praticabile, auspicabile e necessaria, realizzabile. La rivoluzione ha bisogno di cuori e di corpi disponibili a consumarsi, non di urlatori e sbandieratori del nulla.

Mi veniva infatti insegnato nelle scuole di partito (“famigerate” nella lettura che oggi si vuol darne da destra), che un vero rivoluzionario deve essere consapevole di essere anche avanguardia e quindi di dover sperimentare a lungo deserti e faticose solitudini, perché un’idea già condivisa nelle maggioranze non è già più rivoluzionaria per definizione. Dunque quando una qualsiasi idea rivoluzionaria in origine diviene patrimonio condiviso dalle maggioranze il vero rivoluzionario dovrà aver saputo già spostarsi più avanti alla ricerca di “equilibri più avanzati” di civiltà e di ricerca di umanità e senso della storia.

Equilibri più avanzati”, si diceva. Non distanze siderali dalle società cui necessariamente ciascuno deve poter riferire, perché se avessimo rotto i cordoni ombelicali della comunicazione tra noi e gli altri, come potremmo mai sperare di convincerli al nuovo e di coinvolgerli nel non sperimentato? Ecco perché appaiono tristi le partecipazioni televisive di molti leader o presunti tali della/e “sinistra/e” tutti impegnati ad affermare se stessi e contrastare gli interlocutori piuttosto che dimostrarsi consapevoli della enorme forza dello strumento di cui hanno disponibilità: poter parlare in modo convincente al cuore, al cervello ed alla intelligenza di almeno un milione (certamente di più) di spettatori nello stesso tempo, anziché ai venti proseliti che siamo soliti incontrare al chiuso delle nostre stanze riservate, è una occasione sempre eccezionale da utilizzare, per poter essere ridotta a “strillonaggio”, che non ha peraltro convinto gli elettori, di parole d’ordine piuttosto che di idee e processi nuovi.

Arrivare a compiacersi, davanti a quei milioni di telespettatori di aver avuto almeno “un consenso superiore alla lista di Ferrara” rischia di diventare una sconcertante negazione di quelle nostre antiche radici popolari ed innovative, se non rivoluzionarie, che altri, con altrettanta miopia ritengono condensate solo in un simbolo (la falce e il martello) ritenendo la sua assenza visibile sul contrassegno elettorale possa aver contribuito a disorientare l’elettore.

Ma davvero si può dare così facilmente in diretta del “cretino”, a quello che riteniamo debba o possa essere un nostro potenziale elettore progressista? Come si può scambiare una “bega” tutta interna agli apparati di partito con un messaggio convincente da trasmettere a compagni certamente delusi dalla politica della sinistra negli ultimi anni, ovvero a coloro che assistevano disorientati alla cancellazione della propria rappresentanza istituzionale?

Ecco perché è ancor più deludente l’uso che molti Parlamentari della/e sinistra/e hanno mostrato di saper fare anche degli strumenti istituzionali di cui avevano disponibilità, riducendo ordini del giorno ed interrogazioni parlamentari al vuoto esercizio di inutili rituali. Per dimostrare poi – ma solo a se stessi ed ai soli “loro”, e solo con il proprio dissenso e dissociazione - la propria diversità, quando non avevano saputo proclamarla ed evidenziarla, rendendola comprensibile e condivisibile, con l’uso pieno di tutte le facoltà conferite dal mandato costituzionalmente protetto, innescando quei processi parlamentari di disvelamento delle intenzioni e delle motivazioni che ordini del giorno ed interrogazioni, oltre la ordinaria attività parlamentare, prevedono e consentono.

Abbiamo lasciato che la crisi dei mutui fosse (come ci han voluto far credere) solo un problema di “concessione di mutui a chi non aveva sufficienti garanzie” e non quello che è in realtà: un’altra speculazione sbagliata e munita di “paracadute” delle enormi centrali finanziarie che fanno capo alle banche e che non rispondono mai dei loro misfatti. Per cui sta passando il criterio che sia giusto che “se non hai garanzie sufficienti da offrire, il mutuo te lo scordi”; ma guai se, per avere garanzie sufficienti, tu dovessi inoltrarti nella contestazione della precarietà del lavoro, che ti esclude di conseguenza, per mancanza di garanzie, da ogni concessione di credito finanziario.

Abbiamo lasciato che il passaggio alla manovalanza immigrata dello spaccio di strada di droghe varie venisse assunto con il paradigma “l’immigrato è il criminale che gestisce lo spaccio di morte tra i nostri giovani”, lasciando che rimanesse indisturbata la realtà che la grande criminalità di fatto abbia lucrato proprio su questi diseredati per moltiplicare i propri traffici ed utili (ma lo sapete quanto risparmia e dunque guadagna la mafia a far spacciare dai nordafricani o dagli albanesi, piuttosto che dagli italiani?) ed allo stesso tempo mimetizzarsi nei suoi nuovi impegni di traffici finanziari speculativi, su un mercato che ha sentimenti umani (“è preoccupato o sereno”, “agitato ed euforico” e così via) ma non ha sembianze e volti cui riferire, non ha sensibilità democratica e coscienza civile per intervenire sulle devianze e le mutazioni genetiche che la criminalità induce sui mercati distorcendone natura e modalità. Così il mercato diviene una spelonca di ladroni dove ciascuno specula senza sosta, in una economia drogata ed in una finanza alimentata da capitali criminali lucrati sulle masse popolari (pizzo e droga su tutti), ma non risponde delle truffe consumate ai danni degli ignari e sprovveduti lavoratori italici, indotti a cercare (per quella cultura della ricchezza di cui dicevo) qualsiasi metodo e processo per veder moltiplicate le proprie risorse. Né più né meno che il povero Pinocchio beffato e truffato dal gatto e la volpe.

Eppure avevamo sperimentato anni in cui il Capitale e la sua logica del puro profitto accettarono (o furono costretti ad accettare) di moderare le proprie ambizioni di fronte alla consapevole e decisa contrapposizione di classi sociali determinate a non svendere la propria dignità e non cullare sogni ed ambizioni che non erano nel proprio DNA. Forse sono riusciti a mutare anche la nostra anima, attraverso la inoculazione continuata dei loro virus destabilizzanti.

Se la stessa competizione politica diviene solo ansia di eliminazione dell’avversario e non illustrazione delle due diverse, e a volte difficilmente compatibili, modalità con cui le parti sociali (destra e sinistra) intendono costruire il destino ed il futuro della società, prima o poi – vuoi per un “incidente di lavoro”, vuoi per la arrogante eliminazione delle misure di sicurezza (e cioè per la assenza di regole precise e condivise sulle condizioni minimali di garanzie e di diritti, e sui criteri di vigilanza) – l’una rischierà di prevalere violentemente sull’altra, per la propria forza, per merito o per consenso (e poco importa se “drogato”) e per la semplice eliminazione fisica dell’avversario. È quello che oggi è accaduto con la estromissione dalle istituzioni rappresentative della sinistra storica ed antagonista, con la sua stessa più o meno consapevole corresponsabilità. Anche se non è stata ancora scritta la parola fine sulla storia della vera sinistra e dei suoi valori alternativi.

Certo, c’è anche un motto evangelico che ci avverte “non sappia la sinistra ciò che fa la destra”, ma non è la negazione di un confronto dialettico. È solo per dirci che nessuna ipotesi e nessun momento, pur necessari, di collaborazione tra gli “arti diversi” dovrà o potrà alterarne la diversità sostanziale, fino a pensare che – se non si elimina l’avversario – potrebbe essere addirittura meglio cercare di mutarci a sua immagine e somiglianza piuttosto che cercare di intercettare i momenti della possibile collaborazione ed i criteri di un dialogo in cui ciascuno sappia rimanere se stesso. È stata la grande operazione di un PD nato senza vere radici politiche e senza un vero progetto alternativo. Ma ancora una volta la genuinità, sempre necessaria alla gente, ha portato l’elettore a scegliere l’originale piuttosto che la fotocopia, e visto che non siamo riusciti a convincere che esistessero realmente alternative possibili da costruire assieme ad escludere anche la scelta “presuntivamente altra”.

La ThyssenKrupp, con i suoi sette morti di Torino e con il morto di Terni proprio durante il turno elettorale, è stata ed è un grave campanello di allarme sui possibili effetti dei reciproci comportamenti (di destra e sinistra) mutageni, rispetto alla necessaria armonia delle realtà sociali, verso ansie di egemonia e di dominio esclusivo.

Se la sicurezza degli operai è infatti solo un “costo insopportabile” per le aziende, diviene poi logico e necessario “tagliare”, nell’ottica del capitale di rapina, su tali risorse “superflue”. E se, dall’altra parte, il mondo dei lavoratori si assoggetta a simili erosioni di diritti conquistati con lotte dure ed una immensa fatica sociale, perché impauriti dalla condizione di precarietà e mobilità che potrebbe loro derivare dalla contestazione - e dalla “concorrenza al posto di lavoro” che i più poveri della umanità potrebbero essere indotti a fare, accettando salari inferiori e rinunciando alle garanzie di sicurezza - prima o poi ci sta che un “incidente di lavoro” possa coinvolgere anche noi, che pavidamente avevamo finto di non vedere pur di mantenere i nostri scarsi ed ignobili “privilegi” come quello di sopravvivere, con le tasche vuote, in una società che invita invece a vivere la vita a pieni polmoni ed esalta solo chi ha le tasche piene di denaro.

Ed è inutile volerci distinguere da quel “noi”, rivendicando la personale diversità di “puri e duri”, se le nostre espressioni di antagonismo sono servite solo a confortarci nella nostra specifica diversità e non hanno saputo aiutare gli altri a vedere la terribile frana (come e peggio che nel Vajont) che incombeva sul nostro e loro capo e che avrebbe travolto la nostra e loro vita.

 

Mario Ciancarella

 

segue 3ª ed ultima parte


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