Lo scaffale di Tellus
Gordiano Lupi: L’Avana secondo Virgilio Piñera
Virgilio Piñera
Virgilio Piñera 
01 Luglio 2008
 

L’Avana Vecchia è il quartiere più antico, comincia dal porto, prosegue per il centro e termina con la Plaza de Armas. Questa è la città delle colonne di Carpentier, ma anche delle sbarre, dei patios, dei portali, del deterioramento, dell’ombra e del riscatto, ma pure il complesso coloniale più ricco del mondo latinoamericano, che conserva monumenti antichi, fortezze, conventi e chiese. Il Malecón è il centro strategico dell’Avana, fiancheggia il Vedado e il centro fino all’Avana Vecchia per cinque chilometri che vanno dal Castillo de La Punta alla Chorrera. Lo spettacolo più bello che il lungomare mette in scena ogni giorno è quello del tramonto di un sole a picco oltre le scogliere, perso in un oceano di troppe speranze. Il Malecón ci mostra l’ospedale Hermanos Ameijeras, il monumento ad Antonio Maceo, la cascata vicina alla Rampa, il monumento alla memoria delle vittime della esplosione del Maine, l’Hotel Nacional, la statua equestre di Calixto Garcia, gli hotel Cohiba e Riviera. In fondo al paseo troviamo la Chorrera, piccola torre davanti al mare con i giardini che segnano la fine del Malecón. La ceiba di Plaza del Templete resta il simbolo più importante dell’Avana, il più antico emblema di libertà cittadina che serve ancora a sperare in un futuro migliore.

Virgilio Piñera considera L’Avana un sepolcro diviso a sua volta in sepolcri più piccoli, ma non certo per l’architettura cittadina e nemmeno per le dimensioni da metropoli. L’Avana è una città grande ma non è una grande città, nel suo intimo è provinciale, ci sono galli che cantano, giardini popolati da ragazzini che giocano, strade dissestate dove macchine scassate si muovono a fatica. Virgilio Piñera dice che L’Avana sembra un sepolcro perché contiene troppa miseria e ha tutte le stazioni della Via Crucis composte da tombe e luoghi di sofferenza, barrios in rovina, case cadenti, spazi di profonda povertà. Per Piñera la città delle colonne è la città dei sepolcri, un misto di miseria e tristezza da vivere secondo la maledetta circostanza dell’acqua che circonda da ogni parte, come scrive nello stupendo poema L’isla en peso. Traduco la prima strofa di un’opera importante scritta dal grande drammaturgo nel 1941, ma che si adatta ancora bene alla contemporanea decadenza avanera.

 

La maledetta circostanza dell’acqua che circonda da ogni parte

mi obbliga a sedermi alla tavola del caffè.

Se non pensassi che l’acqua mi corrodesse come un cancro

avrei potuto dormire tranquillamente.

Mentre i ragazzi si spogliavano dei loro vestiti per nuotare

dodici persone morivano in una stanza per compressione.

Quando all’alba la mendicante scivola nell’acqua

nel preciso momento che si lava uno dei suoi capezzoli,

mi abituo al fetore del porto

mi abituo alla stessa donna che invariabilmente masturba,

notte dopo notte, al soldato di guardia in mezzo al sogno dei pesci.

Una tazza di caffè non può allontanare la mia idea fissa,

in un altro tempo ho vissuto adamiticamente.

Chi ha prodotto la trasformazione?

 

L’Avana è ancora la stessa città abbagliata dal sole e schiaffeggiata dagli acquazzoni, che vive tra fatiscenze e antico splendore, enormi casermoni anni Settanta lasciano il posto a case signorili, strade non asfaltate conducono verso altri casermoni brulicanti gente, case misere e sporche, baracconi. L’Avana è la sua gente in cerca di speranza, popolo in fuga che si adatta e trova la forza per andare avanti, tra fogne intasate che rendono l’aria irrespirabile, immondizia in decomposizione, carcasse di animali divorate da insetti, mosche e zanzare. L’Avana è un popolo che deve inventare un modo per sopravvivere, sono gli intellettuali che non possono parlare e devono fuggire, sono le mancanze del quotidiano sempre più pressanti.

Virgilio Piñera non è scrittore amato dal regime, come non lo era Cabrera Infante, pure lui ha vissuto con il mostro e ne conosce le viscere, pensa che assistere a un delitto in silenzio equivale a commetterlo, come scriveva José Martí. Non può restare insensibile di fronte a frasi che fanno tremare e non può accettare che fuori dal solco rivoluzionario non venga ammessa alcuna libertà di espressione. Il compito degli scrittori di regime è quello di dire cose buone a ogni cosa brutta che accade, ma non è il ruolo dell’intellettuale che deve rischiare sulla sua pelle per trasmettere soltanto le cose che pensa. Se si possono capire giornalisti e scrittori che vivono a Cuba perché temono repressioni da parte del regime, non sono comprensibili i fiancheggiatori europei, i conniventi responsabili che aiutano a tenere in vita una dittatura. La futura Seconda Repubblica Cubana dovrà creare una procura generale per processare tutte le pubblicazioni europee che hanno ripetuto le calunnie castriste contro Cuba e le giudichi per complicità e per diffamazione. È una richiesta di Cabrera Infante, ma la trovo ancora di estrema attualità.

Non è possibile parlare di libertà in una terra dove gli alunni della scuola elementare imparano a leggere dicendo la f di Fidel. Si comincia così e si prosegue in un crescendo di censura e indottrinamento che non ha eguali. Ho vissuto e visto laggiù tanto dolore non da fare una frase ma da riempire un libro, scrive il grande poeta in esilio Heberto Padilla. Haydée Santamaria muore suicida sparandosi un colpo di pistola il 26 luglio 1980 e la lettera con cui si dissocia dalla rivoluzione non è mai stata resa pubblica. Haydée è una dirigente rivoluzionaria disillusa che non se la sente di continuare a vivere in un mondo di menzogna e paura che rende servi persino i letterati. Non tutti sanno che a Cuba il suo suicidio non è mai stato ammesso e che lei ha avuto un funerale in sordina, senza nessun clamore.

Adesso possiamo dire che la vera letteratura cubana è in esilio, anche se pure nell’isola restano voci importanti che si ritagliano spazi per pubblicare all’estero, ma i cubani non leggono i loro libri. L’intellettuale in esilio fa proprio il concetto espresso da José Martí nei Versi semplici: Io voglio quando morirò/ senza patria però senza padrone/ avere nella mia tomba un mazzo/ di fiori e una bandiera. Fa sorridere soltanto pensare che Fidel Castro ha eletto il pensiero di José Martí come base di una pseudo rivoluzione socialista. Un esempio evidente di come si possa travisare e adattare un pensiero politico liberale a uso e consumo di un regime dittatoriale. Virgilio Piñera vive sulla spiaggia di Guanabo, è un grande poeta messo da parte per la manifesta omosessualità e per idee troppo liberali, come sarà per Reinaldo Arenas, perseguitato in maniera ancora più spietata. Lezama Lima muore povero e non riconosciuto in tutta la sua grandezza per aver scritto un capolavoro come Paradiso, romanzo boicottato dal regime per l’elogio della omosessualità contenuto nel capitolo ottavo. Il fidelismo è il fascismo del povero. Fidel è uguale a Franco, soltanto è più alto e più giovane, scriveva un po’ di tempo fa il cineasta Néstor Almendros. Adesso Fidel è invecchiato, ma le cose non cambiano.

L’Avana era città di cultura, ricca di riviste e circoli letterari, luogo dove circolavano opinioni diverse e scritture contrapposte, c’erano molti cinema e tutti i film venivano passati in versione originale con i sottotitoli. Adesso è un luogo culturale monocorde dove hanno chiuso ogni voce libera, persino Lunes e le riviste indipendenti. Non è possibile spacciare per cultura le pagine di Juventud Rebelde dove ogni tanto pubblicano qualche poesia retorica dell’Indio Naborí. Proprio no.

 

Gordiano Lupi

 

 

 

La montaña

di Virgilio Piñera

 

La montaña tiene mil metros de altura. He decidido comérmela poco a poco. Es una montaña como todas las montañas: vegetación, piedras, tierra, animales y hasta seres humanos que suben y bajan por sus laderas. Todas las mañanas me echo boca abajo sobre ella y empiezo a masticar lo primero que me sale al paso. Así me estoy varias horas. Vuelvo a casa con el cuerpo molido y con las mandíbulas deshechas. Después de un breve descanso me siento en el portal a mirarla en la azulada lejanía. Si yo dijera estas cosas al vecino de seguro que reiría a carcajadas o me tomaría por loco. Pero yo, que sé lo que me traigo entre manos,(1) veo muy bien que ella pierde redondez y altura. Entonces hablaran de los trastornos geológicos. He ahí mi tragedia: ninguno querrá admitir que he sido yo el devorador de la montaña de mil metros de altura.

 

 

La montagna

(traduzione di Gordiano Lupi)

 

La montagna è alta mille metri. Ho deciso di mangiarmela poco a poco. È una montagna come tutte le montagne. Vegetazione, pietre, terra, animali e persino esseri umani che salgono e scendono per i suoi pendii. Tutte le mattine mi metto bocconi sopra di lei e comincio a masticare la prima cosa che capita. Resto così per diverse ore. Torno a casa con il corpo distrutto e con le mandibole esauste. Dopo un breve riposo mi siedo nel portico a guardarla nella azzurra lontananza. Se io dicessi queste cose al vicino sono sicuro che riderebbe a crepapelle o mi prenderebbe per pazzo. Però io, che so le cose come stanno,(1) vedo molto bene che lei perde superficie e altezza. Allora parleranno degli sconvolgimenti geologici. È questa la mia tragedia: nessuno vorrà ammettere che sono stato io il divoratore della montagna alta mille metri.

 

(1) lett.: sé lo que me traigo entre manos - so quello che mi porto tra le mani

 

 

La isla en peso

di Virgilio Piñera

 

La maldita circunstancia del agua por todas partes
me obliga a sentarme en la mesa del café.
Si no pensara que el agua me rodea como un cáncer
hubiera podido dormir a pierna suelta.
Mientras los muchachos se despojaban de sus ropas para nadar
doce personas morían en un cuarto por compresión.
Cuando a la madrugada la pordiosera resbala en el agua
en el preciso momento en que se lava uno de sus pezones
me acostumbro al hedor del puerto
me acostumbro a la misma mujer que invariablemente masturba,
noche tras noche, al soldado de guardia en medio del sueño de los peces.
Una taza de café no puede alejar mi idea fija,
en otro tiempo yo vivía adánicamente.
¿Qué trajo la metamorfosis?
[...]
Todo un pueblo puede morir de luz como morir de peste.
Al mediodía el monte se puebla de hamacas invisibles,
y echados, los hombres semejan hojas a la deriva sobre aguas metálicas.
En esta hora nadie sabría pronunciar el nombre más querido,
ni levantar una mano para acariciar un seno;
en esta hora del cáncer un extranjero llegado de playas remotas
preguntaría inútilmente qué proyectos tenemos
o cuántos hombres mueren de enfermedades tropicales en esta isla.
Nadie lo escucharía: las palmas de las manos vueltas hacia arriba,
los oídos obturados por el tapón de la somnolencia,
los poros tapiados con la cera de un fastidio elegante
y de la mortal deglución de las glorias pasadas.

¿Dónde encontrar en este cielo sin nubes el trueno
cuyo estampido raje, de arriba a abajo, el tímpano de los durmientes?
¿Qué concha paleolítica reventaría con su bronco cuerno
el tímpano de los durmientes?
Los hombres-conchas, los hombres-macaos, los hombres-túneles.
¡Pueblo mío, tan joven, no sabes ordenar!
¡Pueblo mío, divinamente retórico, no sabes relatar!
Como la luz o la infancia aún no tienes un rostro.
[...]
No queremos potencias celestiales sino potencias terrestres,
que la tierra nos ampare, que nos ampare el deseo,
felizmente no llevamos el cielo en la masa de la sangre,
sólo sentimos su realidad física
por la comunicación de la lluvia al golpear nuestras cabezas.

Bajo la lluvia, bajo el olor, bajo todo lo que es una realidad,
un pueblo se hace y se deshace dejando los testimonios:
un velorio, un guateque, una mano, un crimen,
revueltos, confundidos, fundidos en la resaca perpetua,
haciendo leves saludos, enseñando los dientes, golpeando sus riñones,
un pueblo desciende resuelto en enormes postas de abono,
sintiendo cómo el agua lo rodea por todas partes,
más abajo, más abajo, y el mar picando en sus espaldas;
un pueblo permanece junto a su bestia en la hora de partir,
aullando en el mar, devorando frutas, sacrificando animales,
siempre más abajo, hasta saber el peso de su isla;
el peso de una isla en el amor de un pueblo.

 

 

L'isola in peso

(traduzione di Gordiano Lupi)

 

La maledetta circostanza dell’acqua che circonda da ogni parte

mi obbliga a sedermi alla tavola del caffè.

Se non pensassi che l’acqua mi corrodesse come un cancro

avrei potuto dormire tranquillamente.

Mentre i ragazzi si spogliavano dei loro vestiti per nuotare

dodici persone morivano in una stanza per compressione.

Quando all’alba la mendicante scivola nell’acqua

nel preciso momento che si lava uno dei suoi capezzoli,

mi abituo al fetore del porto

mi abituo alla stessa donna che invariabilmente masturba,

notte dopo notte, al soldato di guardia in mezzo al sogno dei pesci.

Una tazza di caffè non può allontanare la mia idea fissa,

in un altro tempo ho vissuto adamiticamente.

Chi ha prodotto la trasformazione?

(…)

Tutto un popolo può morire di luce come morire di peste.

A mezzogiorno il monte si popola di amache invisibili,

e lanciati, gli uomini sembrano foglie alla deriva su acque metalliche.

In questa ora nessuno saprebbe pronunciare il nome più caro,

né alzare una mano per accarezzare un seno;

in questa ora del cancro uno straniero giunto da spiagge remote

domanderebbe inutilmente che progetti abbiamo

o quanti uomini muoiono di malattie tropicali su questa isola.

Nessuno lo ascolterebbe: le palme delle mani rivolte verso l’alto,

gli orecchi otturati dal tappo della sonnolenza,

i pori tappati con la cera di un fastidio elegante

e della mortale deglutizione delle glorie passate.

 

Dove incontrare in questo cielo senza nubi il tuono

il cui scoppio spacca, da sopra a sotto, il timpano dei dormienti?

Quale conchiglia paleolitica spaccherebbe con il suo aspro corno

il timpano dei dormienti?

Gli uomini-conchiglia, gli uomini-scimmia, gli uomini-tunnel.

Popolo mio, tanto giovane, non sai comandare!

Popolo mio, divinamente retorico, non sai raccontare!

Come la luce o l’infanzia non hai ancora un volto.

(…)

Non vogliamo potenze celestiali ma potenze terrestri,

che la terra ci sostenga, che ci sostenga il desiderio,

felicemente non portiamo il cielo nelle nostre vene,

solo sentiamo la sua realtà fisica

per la comunicazione della pioggia che cade sulle nostre teste.

 

Sotto la pioggia, sotto l’odore, sotto tutto quello che è una realtà,

un popolo si fa e si disfa lasciando i testimoni:

una veglia, una festicciola, una mano, un crimine,

rivolti, confusi, sprofondati nella risacca perpetua,

facendo lievi saluti, mostrando i denti, percuotendosi i reni,

un popolo discende risolto in enormi poste di accredito,

sentendo come l’acqua lo circonda da ogni parte,

più sotto, più sotto, e il mare picchiando nelle sue spalle;

un popolo resta unito alla sua bestia nell’ora di partire,

ululando nel mare, divorando frutti, sacrificando animali,

sempre più sotto, fino a conoscere il peso della sua isola;

il peso di un’isola nell’amore di un popolo.

 

 

Natación

di Virgilio Piñera

 

He aprendido a nadar en seco. Resulta más ventajoso que hacerlo en el agua. No hay temor a hundirse pues uno ya está en el fondo, y por la misma razón se está ahogando de antemano. También se evita que tengan que pescarnos a la luz de un farol o en la claridad deslumbrante de un hermoso día. Por último, la ausencia de agua evitará que nos hinchemos.

No voy a negar que nadar en seco tiene algo de agónico. A primera vista se pensaría en los estertores de la muerte. Sin embargo, eso tiene de distinto con ella: que al par que se agoniza uno está bien vivo, bien alerta, escuchando la música que entra por la ventana y mirando el gusano que se arrastra por el suelo.

Al principio mis amigos censuraron esta decisión. Se hurtaban a mis miradas y sollozaban en los rincones. Felizmente, ya pasó la crisis. Ahora saben que me siento cómodo nadando en seco. De vez en cuando hundo mis manos en las lozas de mármol y les entrego un pececillo que atrapo en las profundidades submarinas.

 

 

Nuoto

(traduzione di Gordiano Lupi)

 

Ho imparato a nuotare sull’asciutto. Risulta più vantaggioso che farlo nell’acqua. Non c’è timore di affondare perché uno già sta in fondo, e per lo stesso motivo sta affogando in anticipo. Inoltre si evita che ci debbano pescare alla luce di una lanterna o nella luminosità abbagliante di uno splendido giorno. Per ultimo, l’assenza di acqua eviterà che ci possiamo gonfiare.

Non voglio negare che nuotare sull’asciutto abbia qualcosa di simile all’agonia. A prima vista si potrebbe pensare ai respiri affannosi della morte. Ma c’è qualcosa di diverso: uno sembra che agonizzi ma in realtà è vivo e vegeto, ascoltando la musica che entra dalla finestra e guardando il verme che striscia per terra.

Al principio i miei amici criticarono questa decisione. Si nascondevano ai miei sguardi e singhiozzavano negli angoli. Fortunatamente, adesso la crisi è passata. Ora sanno che mi sento comodo nuotando all’asciutto. Di tanto in tanto affondo le mie mani nelle mattonelle e consegno loro un pesciolino che acchiappo nelle profondità sottomarine.


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276