Diario di bordo
Maria G. Di Rienzo. Una bambina afgana
Stephanie Sinclair,
Stephanie Sinclair, 'La sposa bambina' (immagine premiata dall’Unicef come 'la foto dell’anno 2007') 
31 Marzo 2008
 

Ciao, sono una bambina di otto anni e vivo in un paese chiamato Afghanistan.

Due anni fa mi hanno fatto sposare un uomo più vecchio di mio padre, la mia mamma non c'è più e lui ha i miei fratellini a cui badare così il prezzo che gli hanno pagato per me consentirà alla mia famiglia di sopravvivere.

Il mio non è un caso raro, il 57% delle ragazze in Afghanistan si sposano sotto i 16 anni per ragioni identiche alle mie. Avrei voluto imparare a leggere e scrivere ma mia sorella, che era maggiore di me di un anno, è morta quando hanno assalito la scuola e da allora nessuna bambina nel mio villaggio si arrischia più ad andarci. Solo il 5% delle ragazze afgane frequenta la scuola secondaria. Non sapevo bene cosa volesse dire essere una moglie, pensavo che si dovesse essere più grandi. I miei nuovi parenti mi hanno fatto molto male, non solo mio marito, ma anche questo non è inconsueto: l'87% delle donne afgane soffre per quelle che chiamano violenza domestica e violenza sessuale. Io non so ancora cosa significano queste parole, ma ho già sperimentato tutte e due. Piango ogni notte. Ho chiesto di poter andare a trovare la mia famiglia, ma me lo proibiscono, dicono: “Abbiamo pagato per te, 800 euro, il salario di tre anni per un uomo. Adesso devi lavorare e stare zitta”. A volte sono così stanca che mi addormento in piedi. Quando mi picchiano penso che voglio morire. Ma forse mendicare dev'essere peggio: trent'anni di guerra hanno lasciato nel mio paese più di un milione di vedove, donne che non hanno diritti da reclamare e chiedono la carità per le strade assieme agli orfani.

Una mia amica adulta che vive in Italia, il vostro paese, mi manda a dire tramite altre amiche grandi di non disperare. Non vuole che io muoia. Io non lo so, e lei non me lo dice, ma l'Afghanistan è l'unico luogo al mondo in cui il tasso di suicidi femminili è più alto di quello maschile. Io non lo so quel che proclamavate più di sei anni fa, mostrando la foto di mia madre soffocata nel burqa prima che morisse soffocate dalle macerie di un bombardamento, ma le mie amiche sì: abbiamo liberato le donne afgane. Oggi mostrate le foto delle mie zie nello stesso burqa e glissate: indossano abiti tradizionali. Ma che è una bugia saprei dirvelo anch'io che sono solo una bambina, perché le mie nonne non l'hanno mai indossato, e le loro madri nemmeno. La mia amica italiana ha appena ricevuto le mie ultime notizie dalle altre amiche, assieme alle immagini di una ragazza non molto più vecchia di me, che per sfuggire al suo matrimonio imposto si è data fuoco. È sopravvissuta, ma le sue non sono immagini adatte ad una bambina, persino ad una bambina afgana come me che ha già visto troppe cose brutte.

Non credo che mi lasceranno più tornare a casa, ma almeno adesso ci sono queste donne, le mie amiche, che sono venute nel mio nuovo villaggio ad insegnare che la religione non vuole che le bambine siano trattate come sono trattata io, e che l'abuso sessuale è sbagliato: hanno persino convinto il mullah, che prima mi faceva paura, ma adesso qualche volta sorride. Mi hanno insegnato questa cosa, che si chiama “diritti umani”, e significa che io ho il diritto di vivere e di andare a scuola, e di non essere picchiata, proprio come le vostre bambine italiane.

E parlando di diritti, credo che la mia amica italiana pensi proprio che i suoi connazionali non abbiano nessun diritto di fare quello che fanno nel mio paese. Forse, se riesco a crescere, se non mi uccido io o se non mi uccide mio marito, o se non mi uccidono i talebani, o i signori della guerra, o gli eserciti stranieri, potrò liberarmi di questo matrimonio forzato. Forse potrò andare a trovarla. Sempre che non mi caccino alle vostre frontiere. Voi però quelle afgane le avete trovate aperte.

Pensate a me, qualche volta.

Firmato: una bambina afgana.


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