Sė, viaggiare
Marco Cipollini: Saint Denis. Elegia Esagonale.
23 Marzo 2008
 

È la tappa obbligata, a circa mezz’ora da Parigi. Questo edificio, maestoso seppur privo di una torre demolita nell’800, perché pericolante e mai più reintegrata, e con la facciata sudicia e annerita, fu grazie all’abate Suger il prototipo di tutte le chiese gotiche. Ma la tappa non è tanto d’obbligo lungo le vie dell’estetica, quanto verso l’anima perduta della Francia. Mai definizione di basilica, nella sua essenza etimologica, è stata più appropriata che per Saint Denis, in quanto per molti secoli fu destinata a sacrario dei re di Francia. La guida blu del TCI, pag. 381, recita: «Un tempo, alla luce di una lampada sempre accesa, riposavano, avviluppate in un mantello viola ricamato di gigli dorati, le spoglie dei re. Le tombe oggi sono vuote: i corpi dei re sono stati sepolti in una fossa comune». Sepolti è un eufemismo. Quivi era appeso l’orifiamma, il vessillo leggendario che guidava l’esercito regio. Oggi Saint Denis è museificata; si paga il biglietto e si entra in un luogo ordinato e triste, perfettamente statale, quindi perfettamente francese (repubblicano!).

Anni or sono, rammento, provai una forte emozione, fredda, ad aggirarmi in quello che era ormai uno splendido magazzino di sepolcri standard, di figure giacenti ma con le mani giunte, ritte irrigidite. Le sontuose tombe monumentali di mano italiana spiccavano per la spalancata esibizione dei cadaveri ignudi: urtante per noi moderni, che abbiamo rimosso della morte la realtà sia fisica sia spirituale. Nessun luogo più di questo declama il mutamento catastrofico di un popolo. Prima della Rivoluzione la Francia era tutto questo. E di colpo fu l’opposto. Forse nessun’altra nazione, se si escludono la Russia sovietica la Cina maoista e i paesi conquistati dall’islam, si è fatta così nemica della propria civiltà tradizionale. Non furono fatti a pezzi solo i cadaveri dei re e le guglie di Cluny e di tante altre chiese, ma l’anima profonda di una gente, che ne restò e rimane anestetizzata. La civiltà cristiana è di fatto un argomento tabù in Francia: le cattedrali sono ridotte a musei, i musei sono le nuove cattedrali. Dopo la carneficina rivoluzionaria e napoleonica — almeno un milione di morti ammazzati, ma non si deve dire — la pietas restauratrice della Restaurazione rimise a posto le poche pietre che potè, ma lo spirito antico dell’hexagone era evaporato per sempre, al pari di quello che aveva animato la civiltà faraonica o ittita o inca o bizantina, e l’ultima coppia regale, quivi inginocchiata, sta impietrita a recitare la requiem aeternam per una dinastia plurisecolare finita affettata. Nessuna persona di senno rimpiangerà l’ancien régime, ma il visitatore che, tra quelle decine di astucci di pietra i quali contennero le ossa di re regine principesse e principini tubercolotici, non avverte un brivido di pietà per tutto quanto dell’uomo fu sacro e finì travolto nel sangue, costui è prosciugato spiritualmente. Pronto a essere esposto imbalsamato nel Museo della Civiltà Europea in corso di allestimento.

Dedicato a Charles Péguy, l’ultimo poeta di quella Francia.

 

 

ELEGIA ESAGONALE

     Uscendo da St Denis

 

Dio non abita più qui, né forse sotto

questo cielo grigio-ateo, né una scaglia

d’uomo è in questi sepolcri vuoti, stipati

per l’eterno da una dinastia ostinata,

tranciata a macchina in bagliori di sangue

da un’età più libera, fraterna, eguale.

 

Quale, dolomitiche voi cattedrali,

memoria impietrita vi sostiene in piedi?

Stalagmiti su cui gocciolò la Grazia,

le vostre cuspidi gridano assetate,

scheletri angelici i vostri contrafforti

puntellano il sacro fossile ai turisti.

 

Gl’inni derisi da sofismi in parrucca,

la croce scomposta in assi cartesiani,

le basiliche fatte cave di pietra…

È finita così la vera tua gloria,

o antica Francia, con la boria imperiale

che ingrassa i vermi di tombe illacrimate?

 

Nemmeno la nostalgia è quella di un tempo

per questi vecchi celti, parà in pensione

che vanno impettiti sul filo del Niente

per la via brulicante dei discendenti

di chi scampò a Poitiers, che sguardi di pece

volgono attoniti al vacuo alveo del cielo.

 

Le lacrime reprimo per te che il cuore

di popolano avevi della tua Jeanne,

per te che all’assalto, in testa ai tuoi soldati,

sulla Marna cadesti poeta e cristiano,

bocconi ti ritrovarono in un campo

di barbabietole, la stigmata in fronte.

 

Beato chi muore come te nella fede,

beato chi muore bisbigliando un tuo verso,

e perciò è disprezzato… Per te mi segno,

mio Charles, e come in una conchiglia il mare

si fantasma, tra queste mura annerite,

scarnificate, trema un’eco di Dio.

 

 

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