Lo scaffale di Tellus
IL MONDO È UNA BETONIERA
02 Gennaio 2006
 

Il poeta Guido Oldani, con il recentissimo libro di poesie La betoniera, edito nella collana “Il Graal” della LietoColle, continua in modo molto persuasivo il lavoro già testimoniato dalla raccolta Sapone (2001, nella rivista internazionale Kamen’, diretta da Amedeo Anelli). Si tratta di dodici poesie, di cui undici formate da sette versi, mentre la prima, col titolo della raccolta, è di nove. Ho notato subito questi numeri, perché immagino non siano casuali: il decuplo di sette, molto presente nella Bibbia, implica l’idea della totalità del ciclo evolutivo, mentre il Libro di Isaia porta le seguenti parole: «La luce del sole diverrà sette volte più luminosa – come la luce di sette giorni – il giorno in cui il Signore medicherà la piaga del suo popolo e guarirà le ferite dei sui colpi», mentre nel celebre Veni, creator Spiritus leggiamo: «Tu septiformis munere, / dexterae Dei tu digitus, / tu rite promissum Patris / sermone ditans guttura». Ma anche il nove, come numero delle sfere celesti, oltre che dei cerchi infernali, è sacro: secondo lo Pseudo Dionigi l’Aeropagita, gli angeli si distribuiscono, gerarchicamente, in nove cori e tre triadi. Del resto, la rappresentazione della totalità possiamo ben coglierla nella rotazione della betoniera, figura del mondo col suo asse inclinato, e “pancia di dio padre”, che riapparirà, secondo la struttura circolare del libro, nella finale Lavatrice.


La betoniera


l’acqua ha già il sale e su, le petroliere,

versano olio, come condimento,

alla zuppa di pesce navigante.

e la gabbia del cielo ha le sue penne

che portano la cacciagione in volo

e i vermi sono filo per cucire,

che tiene insieme ogni zolla nera

e il tutto è nella pancia di dio padre,

che ci mescola, dolce betoniera.


Quelle di Oldani sono poesie tematizzate, come si nota dai titoli, e composte secondo la concisione dell’apologo, mentre l’impiego della similitudine e dell’associazione in chiave grottesca sostanziano un realismo immaginario e venato di comicità: cappotti vuoti come «bucce di banane»; «cravatte rosse» per fiamme, l’automezzo dei pompieri che «alza la zampa» come un cane per spegnere l’incendio e salvare il gatto, ma non la vecchia; il mezzo di trasporto pubblico che scarica, alla maniera di un camion, persone come ghiaia su Milano…


Cravatte


come cravatte rosse verso il cielo

si affacciano le fiamme al davanzale

incartando i gerani con il fumo.

e un camion grosso con la pancia d’acqua

alza la gamba posteriore e spegne

e hanno salvato il gatto per fortuna

la vecchia no, faceva grida indegne.

 


Se una poesia come “Cravatte” indica il livello di divertimento che l’autore deve aver provato nel comporla (quasi un tabù, in tempi di grandi piagnistei poetici), escogitando nuove soluzioni nell’impiego del linguaggio figurato, dell’analogia e dello scorcio utile al bozzetto, ma sempre in funzione della realtà prodotta, non dobbiamo dimenticare che cedendo al gusto del motivo quasi da gravure, Oldani ci mostra esiti di brutalità sociale e domestica, sia pur costellandola con l’ironia, che ora intona di sé le scene (“Sedie a sdraio”, “Cravatte”, “I due”), ora rafforza con figure di contrasto la tragicità degli eventi, come in “La carne”, perché il vitto che qui si cucina non è quello spumoso e zuccherino dei cotillons.


La carne


è tutta glabra la sua carne rosa,

più tenera di quella del tacchino

e ognuno ha l’acquolina ma non osa.

sono in tanti faranno un po’ per uno

nel mentre è quasi pronta la polenta,

come alla sagra ma è guerra civile

e ognuno le si appressa e la violenta.



Le guardie


si mormora che alcune forestali,

un po’ come caino con abele,

se l’incendino i boschi ai litorali.

invece in mezzo ai valichi di neve

portava grappa appesa al sottogola

il sambernardo bianco per soccorso,

ma era solo un cane e non fa scuola.



La lavatrice


la centrifuga gira come un mondo

e i suoi abitanti sono gli indumenti

riposti dalla coppia dei congiunti.

si avvinghiano bagnati in un groviglio

i rispettivi panni in capriola,

sono rimasti questi i soli amanti,

quegli altri se si afferrano è alla gola.


Al lettore si offrono brevi poesie affidate a un organico limitato e a un’economia di mezzi decisamente sobria, ma dove ogni elemento riesce a produrre il massimo risultato col minimo sforzo, e questo perché Oldani, a cui si deve riconoscere una notevole capacità associativa corroborata da dinamismo e prontezza di idee, riesce quasi sempre a far entrare in gioco le sue figure in vista dell’effetto, cosa che egli ottiene con grande spigliatezza, accomunando aspetti fra loro remoti, eppure in qualche modo accostabili, magari anche con uno spericolato salto della fantasia. È il caso dell’autopompa che spegne il fuoco alzando la zampa come un cane, o della carne tenera e rosa della donna accostata a quella del tacchino, per portare il lettore all’idea dell’acquolina in bocca, in vista della sagra, la quale si presenterà invece, ex abrupto, e su ben altro registro pulsionale, nella scena del multiplo stupro. Guardando dunque le cose dal punto di vista economico e strutturale, quel che qui colpisce è l’energia plastica del “quadro” contro ogni inutile dispersione, l’arcata del pensiero che si tende dall’immagine-esca iniziale allo scoccare spesso sarcastico ed esplosivo della chiusa; e siccome tutto ciò, come si accennava, avviene nel giro di sette versi, anche la scelta di mostrare i lati più ostili e degradanti della vita, potrebbe lasciar supporre nel nostro poeta lombardo una qualche forma di gnosticismo: la speranza si possa raggiungere, da una terra infettata dal demonio, la santa totalità dell’Eone.

Certo, il componimento “a soggetto”, di cui si avvalsero grandi poeti come Porta e Trilussa, da Oldani riproposto con grande efficacia e indubbio senso della novità, potrebbe, nel caso venisse costantemente ripreso, insinuare l’idea di un marchingegno, che una volta posto in moto tenda a standardizzare la loro godibile figurazione a sfondo gnomico. A questo plausibile sospetto, noi vorremmo tuttavia far presente, come egli senta oggi più che mai l’opportuna necessità di tornare alla concretezza, senza perdere di vista l’ironia – a lui d’altronde congeniale – dando così maggior peso alle figure dei suoi soggetti esemplari e semplificati, mentre il tessuto sonoro dei versi assume piuttosto una funzione rafforzativa. I componimenti appaiono, infatti, costruiti tramite il passaggio degli elementi concretamente figurali attorno a cui si sviluppa l’intento allegorico e la soluzione etica consegnata ai versi di chiusura. Non dunque più l’intimistica e stagnante lacerazione lirica di fronte al mondo, bensì una possibilità di avanzamento, e quindi anche di vita, offerta proprio dalla visione cruda, quasi da naturalismo in sintesi, ma sorretta dalla bonomia e dalla mossa fantasiosa dell’Autore, il quale non rinuncia mai alla scelta estetica.

A me sembra, dunque, che il crudo e ironico “cantastorie” di “Sapone” e “Betoniera” abbia inteso rompere con l’io lirico e si sia, almeno in certe composizioni, avvicinato ai modi della favola esopica, sia per l’accento etico di un percorso permeato di comicità, sia per la stringatezza dell’esempio, spesso esaltato dalla smorfia deformante, mentre il tessuto narrativo accoglie indifferentemente figure di animali, di persone e oggetti in quanto attori del suo discorso. Non dovremmo poi dimenticare il tono della voce, che per chi abbia potuto ascoltare il poeta, è quello robusto, pacato e ironicamente bonario del narratore.


Silvio Aman


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