Diario di bordo
Guido Bedarida. Per il Giorno della Memoria
26 Gennaio 2008
 

Shemà
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Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo,

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi:

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

                 Primo Levi, 10 gennaio 1946

 

 

Giorno della memoria.

È difficile ricordare qualcosa che è lontano, qualcosa che non si è vissuto, se pur poche decine di anni fa.

Ancora piu difficile è avere memoria di qualcosa che difficilmente si adatta alla comprensione, alla credibilità per la sua enormità, per la sua assurdità, per i suoi metodi, per la sua realtà e tangibilità che si perde in un enorme abisso di dolore, sofferenza e morte: la Shoa

Oggi, e sempre, non si ricordino solo la massa enorme ed indistinta delle vittime, si cerchi di ricordare i singoli, gli individui, loro per tutti, e tutti perché tutti erano individui.

Coloro le cui storie note forniscono solo una vaghissima idea di quello che sei milioni di persone, di vite, di tragedie intollerabili raccontarono a se stesse incredule e che e lasciano noi ugualmente sconvolti.

 

Ma noi increduli non possiamo e non dobbiamo essere.

Si leggano, si rileggano, si ricordino le storie di Anna Frank, di Primo Levi, dei bambini di Terezin, tenendo presente che quei pensieri, quelle descrizioni, quella vita riportata su carta erano il frutto di uno sforzo di razionalità che il mondo intorno a loro non aveva, non voleva, perchè si era costruito un incubo e si voleva che quei sei milioni, e coloro che ne scamparono sopravvivendone fortunosamente, lo dovessero vivere nella sofferenza e poi sparire.

Si abbia ben presente che lo sterminio voleva prima annullare quelle persone nell’animo e poi di fronte al mondo ed alla storia, annullarle non solo come cessazione fisica, ma perfino dall’essere esistite.

Ed invece noi sappiamo che quelle individualità e storie sono state tali, tragedie di sofferenza incomprensibile in un mondo livido, dai colori distorti, in un orrore che attutiva la percezione di sé, che spersonalizzava e sfiniva fino a rendere larve nel corpo e nella mente.

 

Quelle vite non erano solo giocattoli da rompere, vittime di capricci, oggetti per scommesse di statistica (l’istinto materno della donna incinta spinge ad una maggiore sopravvivenza colei che viene gettata legata da una rampa di scale rispetto a colei che incinta non è?) ma perfino carburante da bruciare al servizio e per il piacere della macchina assassina nazionalsocialista; erano letteralmente calorie lavoro sottratte ai corpi di coloro che erano costretti a lavorare malnutriti per qualche mese o anche solo qualche giorno piegati in ogni resistenza fisica o morale, prima di morire uccisi o sfiniti. Gli altri, donne, bambini, anziani, erano subito materie prime con gli oggetti personali sottratti ai corpi cremati dopo l’avvelenamento e poi: oro dai denti, parrucche dai capelli, saponette dalle membra, paralumi dalla pelle, pettini ed altri oggetti dalle ossa di cui la Germania nazista faceva uso disinvolto.

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I filmati, le foto dei lager, colgono l’istante, il visibile, il postumo, ma in qualche modo negano il quotidiano, l’interiore, la consapevolezza di aver visto cadere con straziante impotenza intorno a sé prima le proprie quotidianità, poi le certezze, poi le persone, a decine, a centinaia, ed i familiari, nei modi più atroci.

La quotidianità era fatta di fame, malattie, dolore, freddo, tortura; giornate interminabili senza speranza, in attesa solo della peggiore delle morti.

Una quotidianità che sbranava l’animo e perforava il cervello, concepita ed attuata ad arte affinché l’abisso del male sempre più profondo avvolgesse e precipitasse oltre qualsiasi limite raggiunto il giorno precedente.

Le foto raccontano le vittime che ci appaiono quasi incredibili perché ci sono negate le immagini dei carnefici nell’atto della tortura. I corpi martoriati, rinsecchiti, i cumuli di cadaveri accatastati nei campi di concentramento, i forni crematori e le baracche puzzolenti mancano dell’immagine del carnefice e dell’aguzzino nell’atto di compiere tali atrocità.

 

Di fronte alla vittima macilenta, scheletrica, svuotata di sé e riempita di orrore e dolore manca la percezione, la fisicità di colui che la torturava, manca una credibile controparte che la storia ci tramanda solo con la figura dell’impeccabile ufficiale nazista, dell’efficiente soldato tedesco che esegue “semplicemente” gli ordini, del comune e diligente cittadino ariano (e non solo) che collaborò allo sterminio. L’immagine dell’assassino è così legata ad un estetica ordinata e pulita che la mente fatica a immaginare tale individuo al suo posto di instancabile massacratore sadico e freddo.

Quanto riusciamo a immaginare che quell’ordinaria figura fosse la perpetratrice della peggiore persecuzione che la storia umana abbia vissuto?

Non riusciamo a farlo come si dovrebbe, ed è questo il pericolo maggiore: contrapposto alla vittima reale, visibile, abbiamo un aguzzino iconograficamente sempre assente dalla scena, non credibile per un evento apparentemente al di là della comprensione umana.

Ed invece pensiamoli questi uomini mentre pianificano lo sterminio nei particolari, mentre osservano, umiliano, strappano denti, tagliano carne, sezionano persone vive, iniettano malattie, dividono famiglie, torturano bambini, sparano alla testa, osservano morire col gas, con la fame, mentre ridono e si prendono gioco dei sofferenti e dei morti, si nutrono del male e del dolore facendolo sempre piu’ grande e riempiendosene con compiacimento, come ordinari ed orridi esseri con la bocca ed il volto macchiati dagli schizzi di sangue, mentre affondano la testa nel ventre delle vittime vive, con mani che ne strappano gli organi, eppure uomini.

 

Questo è stato.

Ed ancora oggi in certi casi lo si nega, lo si edulcora; quando questo non accade se ne nascondono complicità di allora e successive, se ne minimizza la portata e la comprensione, se ne esalta l’incomprensibilità rendendo l’evento come irreale, si tollerano le omertà ed i silenzi che ancora lo circondano.

Orrori vissuti e subiti che, in questa tragedia dell’assurdo ma concreto, perseguitano per sempre la vittima scampata miracolosamente alla morte piuttosto che il carnefice fuggito o nascosto sotto coperture internazionali: fughe in Brasile, nuovi documenti ed identità, improbabili evasioni in enormi valige a rotelle: anche questo deve essere ricordato perché è parte della Shoa di cui non solo gli aguzzini furono i responsabili.

Se la consapevolezza che quanto accadde è reale e, per quanto unico, non ci si convince che questo è ripetibile, una simile tragedia accadrà ancora.

Non ci spaventi l’idea che ciò possa essere, facciamola nostra e viviamola, dolorosamente, affinché la consapevolezza insegni, renda immuni da quanto l’oblio renderebbe molto probabile piuttosto che orrendamente ma semplicemente ancora possibile.

 

Guido Bedarida

(da Notizie radicali, 25 gennaio 2007)


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