Diario di bordo
Peter Popham. Birmania. “Vincere i cuori”
05 Ottobre 2007
 

Presso il fiume Moei in Tailandia c'è un sole forte, la giungla, e i media mondiali in attesa. Pure, non vi è flusso di rifugiati dal vicino confine con la Birmania.

Da Rangoon provengono inquietanti notizie di monaci che fuggono dalla città; di migliaia di essi ancora detenuti in prigioni improvvisate, senza finestre e con poca acqua o cibo. Nove sono morti durante i “disordini”, dice la giunta militare che chiama se stessa “Consiglio statale per la pace e lo sviluppo”, un appropriato termine orwelliano per la gang di macellai che governa il paese, un paese in cui Orwell tra l'altro aveva servito in polizia. Il numero reale dei morti potrebbe toccare i 200, ma a tutt'oggi nessuno sa ancora dove si trovino i corpi.

Il bagno di sangue di Rangoon, la scorsa settimana, non è stato una sorpresa per gli osservatori di lunga data del paese. Ciò che ci si aspettava seguisse ad esso è ciò che era già accaduto durante il più sanguinoso disastro del 1988: un'ondata di profughi dal confine. Questo non è successo.

Una settimana fa, tre monaci hanno attraversato il fiume Moei che divide i due paesi, e sono svaniti in case sicure prima che qualsiasi giornalista potesse raggiungerli. Martedì scorso, un maggiore dell'esercito birmano, stanco di dover obbedire ad ordini deprecabili, li ha seguiti, ed è tutto.

Fuggire qui provenendo da Rangoon, che dista circa 190 miglia, è pericoloso ma non particolarmente difficile. Un ex leader del movimento degli studenti, che è scappato dalla Birmania due anni or sono, mi ha spiegato che esiste un regolare traffico di gemme tra Rangoon e la Tailandia, e che i contrabbandieri pagano la polizia che dovrebbe controllarli lungo la strada. Lui ha pagato un contrabbandiere perché lo portasse con sé assieme alle gemme. Succede di continuo, ma non sta accadendo ora, e non perché sia più pericoloso del solito, ma per un'altra ragione, una che suggerisce come questa particolare sollevazione sia lungi dall'essere terminata. E che la disperazione mostrata da alcuni commentatori occidentali potrebbe essere prematura.

Ho incontrato il dott. Naing Aung, un'attivista e leader birmano in esilio, ad un piccolo caffè in questa città-collage che include il gruppo etnico birmano così come i musulmani tailandesi, gli indiani e i cinesi. Il dott. Aung fu uno delle migliaia di individui che fuggirono da Rangoon e dalla certezza di passare molti anni in prigione dopo il colpo di stato del 1988. Ma oggi, dice, la situazione a Rangoon è radicalmente diversa.

«La grande differenza tra il 1988 ed ora è che quando uscimmo dalla Birmania ci stavamo preparando alla lotta armata per rovesciare il regime. Uscimmo dal paese e cominciammo ad addestrarci combattendo al fianco di eserciti etnici che erano già coinvolti in conflitti. Ma ora, chi sta protestando in Birmania conduce una lotta non armata. Vogliono vincere vincendo i cuori delle persone. Ciò richiede maggior coraggio, perché stanno fronteggiando gente armata, e sono senz'armi. E dicono che in ogni modo non potrebbero competere con l'esercito birmano sul piano del potere armato, ma possono competere nei termini di avere il sostegno del popolo, in termini di verità e giustizia. Vogliono restare dove sono e portare avanti questa lotta non armata, e non vogliono andare in esilio».

In anni recenti, alcuni analisti hanno sostenuto che la nonviolenza non funziona contro regimi del tipo birmano, generalizzando l'esito di lotte nonviolente come quelle dei tibetani contro i cinesi. Ha funzionato per Gandhi, dicono, perché gli inglesi erano stranieri di buon cuore che ad ogni modo dovevano preoccuparsi delle elezioni, e che prima o poi sarebbero tornati a casa. Ma contro regimi senza misericordia come quello esistente in Birmania, le cui mani grondano sangue, sarebbe futile.

Secondo il dott. Aung, tuttavia, questa nuova generazione di ribelli è decisa a provar loro che sbagliano. «Hanno adottato i metodi gandhiani, quella che chiamiamo “sfida politica”: dimostrazioni, boicottaggi, rifiuto di avere comunicazioni di tipo religioso con il regime, preghiera...»

Il mondo si è accorto della sollevazione birmana quando i monaci hanno cominciato le loro marce due settimane fa. Ma il dott. Aung spiega che esse erano il culmine di una lunga serie di manifestazioni più piccole, cominciate quando gli attivisti della sua generazione, imprigionati dopo il 1988, hanno cominciato ad uscire di galera durante gli anni '90.

«Hanno dato inizio a movimenti su piccola scala, contro cui il regime non poteva fare nulla: il movimento Domenica bianca, per cui le persone vestono di bianco alla domenica; le visite ai prigionieri politici; il movimento Espressioni bianche, migliaia di persone che scrivono delle loro sofferenze sotto il regime, stampano gli scritti e li distribuiscono segretamente. I contadini la cui terra è stata rubata, e la gente che è stata tassata illegalmente sono stati incoraggiati a promuovere cause legali per contrastare queste cose. Gli attivisti usciti di prigione hanno fatto un enorme lavoro nell'istruire le persone sui diritti umani. Lo scorso dicembre hanno celebrato coraggiosamente il “Giorno Internazionale per i Diritti Umani”. Anche la protesta che ha innescato la sollevazione il mese scorso è cominciata con piccole cose. Era una marcia silenziosa contro l'aumento impossibile nei prezzi del carburante, dapprima a Rangoon, poi in molte altre città: nessuno slogan, nessuno striscione, piccoli numeri di persone. I monaci hanno organizzato la propria marcia silenziosa, e questo è stato l'inizio».

Nell'ufficio di un'associazione di esiliati a Mae Sot, L'associazione per l'assistenza ai prigionieri politici, un monaco che è tra i suoi fondatori mi descrive la sua iniziazione violenta alla vita da ribelle. U Te Za Ni Ya era studente in un liceo tecnico birmano nel 1988. Quando il regime chiuse le scuole, andò a Rangoon e si unì alle proteste. Il gruppo con cui si trovava assalì una stazione di polizia, rubò le armi presenti e, durante una battaglia che durò l'intera giornata, uccise tre poliziotti. Il giovane fu arrestato assieme agli altri, e condannato a dieci anni di prigione, di cui ne ha scontati più di otto. «Dopo essere uscito di galera volevo ripulirmi a livello spirituale, perciò sono andato in monastero, come molti altri ex prigionieri, e sono diventato un monaco. In prigione ho passato la maggior parte del tempo con i monaci, così ero abituato ai loro costumi e mi ero interessato alle questioni religiose».

«Non è strano,» gli ho chiesto, «vedere i monaci, gli uomini della pace e della preghiera, assumere un ruolo centrale nella nuova sollevazione?»

«Giocare un ruolo fisicamente violento sarebbe assai distante da ciò in cui crediamo», mi ha risposto. «Ma possiamo avere un ruolo di mediazione. Quando il signore Buddha era vivo, tentò di mediare tra un particolare re ed il popolo che si stava ribellando contro di lui, in modo pacifico. Noi monaci siamo i figli di Buddha, e tentiamo di seguire i passi di nostro padre».

Portare i generali al punto in cui la mediazione è possibile sembra inconcepibile ad alcuni. I ribelli, segretamente, sognano l'intervento di un violento deus ex machina, del tipo di quello di Baghdad?

Assolutamente no, dice con fermezza il dott. Aung: «Abbiamo necessità del sostegno internazionale, ma questa è la nostra causa, la nostra lotta. L'elemento cruciale è la nostra lotta: dobbiamo alzare le teste. Naturalmente vogliamo anche un'azione internazionale coordinata. I generali pensano che tutto vada bene. Abbiamo bisogno della pressione internazionale perché dall'interno venga detta la verità a Than Shwe (il capo militare birmano). Se la Cina ad esempio dice: non potete uccidere la gente per le strade, non potete dirigere la vostra economia in questo modo, loro ascolteranno. Vogliamo che la minaccia delle sanzioni sia dura, per veicolare il messaggio. La gente non si sta ritirando, ora. La maggior parte dei leader dei monaci sono liberi, solo due di essi sono stati arrestati: poiché non hanno tenuto discorsi, non riescono ad identificarli. Questo è l'inizio della fine del dominio militare. Non è la battaglia finale, ma è il primo passo della battaglia finale».

 

Peter Popham

(per The Indipendent, 04/10/2007, trad. Maria G. Di Rienzo)


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