Diario di bordo
Maria G. Di Rienzo. Benvenuti sull'Enterprise!
16 Settembre 2007
 

Direi che possiamo ritenerci soddisfatti: la “tolleranza zero”, in Italia, è stata infine raggiunta. No, non mi riferisco alle ordinanze sui lavavetri o alle proposte (oscene) di un ex ministro della Repubblica rispetto alle moschee. Si tratta di una notiziola, un trafiletto apparso sui giornali qualche giorno fa. In sintesi la storia è questa: due bande di ragazzi italiani, tutti italiani, si scontrano, si picchiano, ed uno dei belligeranti finisce al pronto soccorso. Solo poco tempo fa, la battaglia si sarebbe conclusa qui (“Ne abbiamo mandato uno in ospedale, siamo forti, abbiamo vinto!”); invece, i “vincitori” si appostano all'uscita della clinica, e quando il disgraziato ne mette fuori il naso lo accoltellano alla gola. Senza gravi conseguenze, per fortuna, ma è facile vedere che si tratta di una svolta cognitiva, una svolta terribile. Non basta più che gli “sconfitti” siano fisicamente battuti e psicologicamente umiliati, devono proprio sparire.

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Ammetto che se fossi stata meno ottimista avrei saputo mettere insieme le avvisaglie e comporre un quadro molto prima. In questi anni mi è stato detto che se difendevo i diritti umani di tutte e tutti ero eurocentrica, filo-occidentale, oggettivamente alleata di Bush e anche un po' retrograda.

Una signora molto per bene, dal droghiere, mi ha spiegato che rubare è un mestiere come un altro, sta a noi “farci furbi” e “difenderci”. Un giovanotto mi ha chiesto perché non rispettavo “le idee” dell'estremismo religioso e politico. Qualcun altro ha lamentato la mancanza di “valori” ed ha inneggiato al buon tempo andato in cui gli uomini erano veri uomini, le donne erano vere donne eccetera. In maniera assai rapida si è arrivati a questo: “La tolleranza significa che non puoi avere un'opinione su niente”, e “L'unica legge in vigore è quella della giungla”. Grado zero.

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La tolleranza è un valore morale e non è, in sé, un cattivo principio.

Quando non ci è chiaro cosa abbiamo di fronte, essa è sicuramente migliore di un giudizio prematuro. Il problema principale nell'usare unicamente la tolleranza come principio guida è che diventa un modo per sostenere che non è possibile per noi discernere se qualcosa è meglio o peggio rispetto a qualcos'altro. Tirandola all'estremo, non puoi dire che avere accesso alle risorse sia meglio del morire di fame: puoi dire che tu personalmente preferisci avere tale accesso, ma non puoi dire che sia meglio per chiunque averlo (e ciò di chi va a vantaggio, se non di chi concentra le risorse con la violenza e non vuol condividere niente?). Può indurre l'idea che tutte le scelte sono ugualmente valide. Ma nessuno vive in questo modo, perché noi facciamo scelte di continuo, valutando cosa sia meglio per noi, da quando ci alziamo al mattino. Le nostre scelte non avvengono a caso: per la maggior parte esse scaturiscono dai nostri valori; semplicemente, non è possibile formulare un giudizio se esso non è collegato a valori. Quando si tratta del nostro corpo e della nostra esistenza non possiamo sostenere che tutto si equivale.

Per dire che è meglio vivere in modo dignitoso che morire di miseria devi dare un giudizio, quello che ritiene i valori della dignità umana, e i diritti umani, migliori (per tutti e tutte) del dominio e dello sfruttamento; e che il trattare gli altri come tu vorresti essere trattato è meglio del manipolarli, usarli e martoriarli per i tuoi fini. Lavorare per la giustizia sociale, se tutto si equivale nel giudizio, è impossibile.

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L'eccessiva enfasi sulla tolleranza può esserci di impedimento nell'articolare una visione alternativa all'esistente.

Aggrapparci alla tolleranza ci permette infatti di evitare lo spinoso, difficoltoso dialogo che dobbiamo avere sui valori, il quale ci darebbe infine la possibilità di mostrare che una visione alternativa del mondo puòfunzionare meglio di quel che abbiamo oggi, e cioè di un sistema politico ed economico che svaluta e distrugge persone ed ambiente. Se invece di fare questo continuiamo a mugugnare sull'impossibilità di dare giudizi, perdiamo l'opportunità di raggiungere molte persone alle quali sembra non venga data altra scelta che accodarsi ai fondamentalismi di ogni tipo o propugnare una tolleranza generica, che però non dice nulla di ciò che vogliamo.

A sinistra, la tolleranza è una sorta di minimo comun denominatore del sistema di valori, ma si estrinseca principalmente nell'essere contro l'intolleranza altrui. Alcuni cadono preda dell'idea che questo sia l'unico valore che possiamo avere, e sono così oltraggiati dall'intolleranza da vedere ogni tentativo di definire un comportamento migliore di un altro come una sorta di oppressione. La cosa peggiore, in questa linea di pensiero, è che ci impedisce di vedere cosa c'è di realmente sbagliato nell'intolleranza che colpisce migranti, omosessuali, eccetera.

La cosa veramente sbagliata non è che vi siano persone intolleranti: è che gli assunti da cui partono per esserlo, i loro “valori”, sono distorti, disumani e omicidi. Non mi preoccupa che tali persone emettano giudizi: mi preoccupa che tali giudizi siano contrari ad ogni visione del mondo in cui vi sia la possibilità per qualsiasi essere umano di vivere una vita piena e gratificante. Ciò che c'è di sbagliato è la fonte primaria da cui traggono i loro giudizi, ovvero l'assunto che sempre e comunque dei gruppi debbano dominarne altri e imporre il loro volere con la violenza (il gruppo degli uomini sopra quello delle donne, quello dei veri credenti sopra gli infedeli e così via).

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Forse abbiamo bisogno di cominciare a comprendere cosa i valori sono, e di definirli in base alla complessità dell'esperienza umana, invece di appendere tutta la nostra etica al filo della tolleranza (che tra l'altro suona male a livello simbolico: è un termine comunemente usato come sinonimo di sopportazione. E di solito si sopporta qualcosa che non ci piace per niente, ma che non siamo in grado di eliminare).

I valori non sono comandamenti, innanzitutto, e dovremmo smettere di percepirli come una lista di prescrizioni o regole che devono essere imposte, e che sono solo in grado di dirci quanto cattivi e peccatori siamo se non le osserviamo. Potremmo invece guardare ai valori come a un positivo gruppo di suggerimenti che tendono a farci vivere meglio, raccomandazioni su come provvedere la miglior esistenza possibile ad ogni creatura su questo pianeta. Invece di una lista di fai/credi questo, perché altrimenti vai all'inferno, o sei una carogna, i valori possono essere idee/visioni/progetti in cui credere, e per cui vivere, e che arricchiscono la nostra esistenza.

Da questo punto di vista, chi fallisca rispetto ad uno di essi non viene etichettato come malvagio ed espulso o scagliato nell'abisso, ma viene aiutato affinché non perda la presa.

Quando manchiamo, rispetto ad uno dei nostri valori, il risultato è sofferenza. Se il nostro fallimento ferisce un'altra persona, è il nostro senso relazionale a soffrire. A mio modesto parere, non ci troviamo in un periodo in cui i valori sono scomparsi, o sono stati erosi. Ci troviamo nel mezzo di un conflitto esteso, multiplo, sulla definizione di quali essi siano. Siamo ad un punto di transizione tra un sistema di valori ed un altro, non da un sistema di valori al nulla.

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Uno dei miei slogan preferiti recita: “Il femminismo è la convinzione radicale che le donne sono esseri umani”.

Ne ho anche un altro, di convincimento radicale, ed è (tenetevi pure alla sedia) che gli esseri umani sono “buoni” di fondo. Intrinsecamente, in modo immanente, la vita (umana e non) per me è buona. Di conseguenza credo vi sia del buono negli impulsi degli esseri umani: cercare la felicità, esprimere la propria sessualità, far esperienza di relazioni gioiose, sono tutte cose buone e che vanno incoraggiate e nutrite.

Poiché gli umani sono esseri sociali, accanto al desiderare delle cose e del piacere desiderano la connessione con altri esseri umani, ed essere amati ed accolti da altri esseri umani. Così arriva la mia convinzione numero tre, ovvero la definizione dell'amore come scambio e condivisione di poteri (intellettuale, emotivo, economico, politico, personale, sessuale) per la soddisfazione e l'arricchimento di tutte le parti in causa. L'amore come una rete sociale funzionante, dove chiunque può contribuire con la propria irripetibile peculiarità.

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I fautori del pugno di ferro dicono, e più spesso urlano, delle cose. Di essere preoccupati per le famiglie; per come crescono i bambini; per la droga, i crimini, la violenza; ed hanno ragione ad essere preoccupati. Il problema è che i loro “valori” perpetuano ed intensificano i problemi, piuttosto che risolverli. Se dietro a questi “valori” c'è un dio, di solito è una figura autoritaria e vendicativa a cui bisogna obbedire sotto minaccia di castigo.

Non è un caso che tali “valori” coincidano quasi matematicamente con gli interessi del neoliberismo, che vuole ad esempio lo smantellamento totale delle residue reti di protezione sociale, per avere una forza lavoro disposta a tutto pur di sopravvivere, priva di sicurezze e diritti, capace di fare 60 ore alla settimana senza fiatare pur di tenersi il posto (non fisso), persone che saranno poi ulteriormente fustigate dai maestri del costume perché non passano abbastanza tempo con i propri figli e questi ultimi crescono male.

A questo quadro la denigrazione e la sottomissione delle donne serve a puntino. Le autorità maschili delle principali religioni monoteiste sono molte svelte a sostenere questo “valore”, quando ne hanno l'opportunità, per esempio esaltando la figura del “provveditore maschio” ai bisogni della famiglia: chi controlla gli introiti familiari detiene del potere economico. Limitando la possibilità, per le donne, di conseguirne, si limitano le loro opzioni al matrimonio. E quando una donna non ha la possibilità di lavorare guadagnando abbastanza per provvedere a sé ed agli eventuali figli, il risultato è che quella donna sarà costretta a restare con un uomo, e a dipendere da lui, qualsiasi cosa lui faccia: se è violento, se abusa di lei e dei bambini, la scelta offerta alla donna è continuare a subire violenza o affrontare la miseria.

È questa la famiglia che vogliamo proteggere, una gerarchia di dominio dove gli uomini sono veri uomini e via delirando? Qualsiasi ambiente venga costruito su questo modello risulta difficile, competitivo, autoritario, spesso inumano, un posto in cui bisogna sconnettersi in fretta dai propri sentimenti, ed essere duri e spietati.

Inoltre, poiché alla fine gli uomini devono (capitemi bene, devono) essere violenti, pericolosi ecc., per essere “veri”, il compito delle “vere” donne è quello di civilizzare gli uomini. Con la loro obbedienza, il loro sacrificio, la loro comprensione, ed il loro “rispetto”, ovvio, che è in realtà l'imposizione della volontà del patriarca tramite la minaccia, la coercizione e la violenza. Meno male che ho la fortuna, nella mia vita, di avere relazioni proficue e belle con uomini e donne non troppo “veri” da questo punto di vista, altrimenti avrei già gettato la spugna.

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Dominare un'altra persona è l'opposto della relazione. Nega la piena umanità del dominato, e distrugge l'umanità del dominatore. Cominciamo a crescere ragazze e ragazzi stimolando in loro il senso della connessione, ai loro propri sentimenti ed ai sentimenti degli altri. Smettiamo di dire loro che fuori ci sono solo mostri e competitori accaniti. Cominciamo a valutare che sistemi sociali ci servono davvero e di quali possiamo fare a meno: ciò che esiste per il profitto di pochi si paga sempre con il dolore di molti.

A me interessa che ogni essere umano abbia la possibilità di avere materialmente e spiritualmente ciò che serve alla dignità ed alla qualità della vita. Voglio che ogni persona abbia il sostegno sociale e finanziario che le/gli permette di passare del tempo con i propri figli. Voglio che ogni individuo abbia il pieno diritto all'integrità fisica del proprio corpo, che possa sviluppare relazioni di intimità in mutuo rispetto, e che possa esplorare le proprie potenzialità. Negando che esista un differente accesso alle risorse ed al potere, e molto spesso la “tolleranza” fa questo, si favorisce coloro che già hanno e la conservazione dell'iniquo assetto esistente. Non ammetto che qualcuno giochi a fare il dio nella mia vita o in quelle altrui, in questo mi dichiaro totalmente intollerante, e lo sono al punto che non mi permetterei mai di giocare alla dea nella vostra, di vita.

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Per cui, signore e signori, vi do il benvenuto a bordo dell'astronave Enterprise. Durante la nostra missione quinquennale, diretta ad esplorare nuovi mondi e nuove civiltà, ci muoveremo secondo un principio base, o “direttiva primaria”: si tratta della convinzione che ogni persona o specie, non importa quanto aliena, ha valore e il diritto di vivere come preferisce.

Naturalmente, lo spettro della direttiva include anche noi: in altre parole, il diritto di vivere esattamente come si vuole ha il limite dell'essere valido sino a che non impedisce ad un altro di fare la stessa cosa.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 214 del 16 settembre 2007)


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