Diario di bordo
Deborah Solomon. Scrittrici iraniane. Intervista a Dalia Sofer
Dalia Sofer
Dalia Sofer 
29 Agosto 2007
 

Deborah Solomon: Il tuo primo romanzo, I settembre di Shiraz, è diventato un successo a sorpresa: in parte perché cattura vividamente il clima post-rivoluzionario in Iran e narra l’ingiusto destino di Isaac Amin, un commerciante in gemme rare che finisce imprigionato. Il racconto è del tutto autobiografico?

Dalia Sofer: È basato largamente sulle mie esperienze familiari. Quando avevo otto anni mio padre fu arrestato con l’accusa di essere una spia sionista. Mia madre andava in giro a cercarlo e non riusciva a sapere dove fosse. Riapparve dal nulla un mese più tardi.

Deborah Solomon: Le Guardie della rivoluzione, che lo arrestarono, sono molto presenti nella cronaca in questi giorni. Al Presidente Bush piacerebbe etichettarli ufficialmente come terroristi.

Dalia Sofer: Alcuni dei nostri vicini, nell’ultima casa in cui abbiamo abitato a Teheran, erano Guardie della rivoluzione. Li vedevamo tornare a casa con televisioni e stereo che avevano sequestrato dalle abitazioni di altra gente.

Deborah Solomon: Il Presidente Ahmadinejad ha cominciato la sua carriera come Guardia della rivoluzione, vero?

Dalia Sofer: Quando lo guardo in fotografia mi sembra più un professore alla mano che un tiranno. Sì, è un uomo pericoloso, ma il suo aspetto è quello di un topolino.

Deborah Solomon: Com’era, per un’ebrea, crescere in un paese musulmano?

Dalia Sofer: Ogni mattina, prima di cominciare le lezioni, l’intera scuola si radunava in cortile a cantare inni rivoluzionari. Dopo di che urlavamo: “Marg bar America! Marg bar Israel!” E cioè: Morte all’America! Morte a Israele!

Deborah Solomon: La direzione della scuola sapeva che eri ebrea?

Dalia Sofer: Sì, ma in Iran vedono l’ebraismo ed il sionismo come entità differenti. Possono avere un po’ di tolleranza per un’altra religione, ma Israele per loro è il sionismo e ciò è male. Come ripetono, il grande Satana è l’America, e il piccolo Satana è Israele.

Deborah Solomon: Avevi undici anni quando sei arrivata a New York, in esilio. Dove hai studiato?

Dalia Sofer: Sono andata al Lycée Français, poi all’Università di New York, dove ho preso diplomi in letteratura francese e scrittura creativa. Poi ho conseguito un’altra laurea in scrittura.

Deborah Solomon: Hai incontrato le altre scrittrici di origine iraniana che di recente hanno pubblicato le loro memorie, come Azadeh Moaveni (Lipstick Jihad) o Azar Nafisi (Reading ‘Lolita’ in Tehran)?

Dalia Sofer: No. In questo momento ci sono molte donne che stanno scrivendo le loro memorie.

Deborah Solomon: A me viene da pensare che queste donne d’origine iraniana scrivano delle loro esperienze come una sorta di protesta contro una società che chiede loro così tanto silenzio ed immobilità.

Dalia Sofer: È possibile. Persino il Farsi, come lingua, è elusivo, non diretto. C’è questa idea del taarof che lo permea. Dici qualcosa che non è quel che intendi, e si suppone che la persona a cui lo dici capisca.

Deborah Solomon: Per esempio?

Dalia Sofer: Se sono in visita da te, potrei dirti: “Si sta facendo tardi, è meglio che vada”. E tu mi rispondi: “No, per favore, resta”, ma si suppone che io comprenda che in realtà tu vuoi vedermi andar via. Le persone devono destreggiarsi fra questi codici.

Deborah Solomon: È un indizio per me?

Dalia Sofer: Se anche lo fosse, io sono troppo presa nel taarof per dirtelo.

Deborah Solomon: Temi la persecuzione dei fanatici religiosi?

Dalia Sofer: Per un po’ sono stata davvero paranoica su questa cosa, e pensavo che potessero cercarmi, ma ora non ci penso più molto. Hanno altre cose di cui preoccuparsi. Ma continuo ad avere incubi in cui mi seguono per strada, o mi danno la caccia.

Deborah Solomon: Vivi da sola?

Dalia Sofer: Vivo con il mio gatto, Leo, un micio rosso dallo splendido manto. Il nome Leo, che hanno portato così tanti papi ed imperatori bizantini gli va a meraviglia. È il monarca assoluto del mio appartamento.

Deborah Solomon: Vorresti tornare in Iran?

Dalia Sofer: Nel mio cuore desidero sempre poterci tornare. Non sento di avere radici, qui. New York è accogliente con me, e mi è ormai familiare. Mi piace questa città, e non vorrei apparire ingrata, ma mi piace allo stesso modo in cui ad un ospite piace un delizioso albergo.

 

Deborah Solomon

(per The New York Times, 26 agosto 2007 – traduzione di M.G. Di Rienzo)


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