Diario di bordo
Nessuna giustizia, per Cefalonia? 
Lettera aperta alla Repubblica italiana
Il Capitano Francesco De Negri con la moglie e con la figlia Marcella
Il Capitano Francesco De Negri con la moglie e con la figlia Marcella 
28 Agosto 2007
 

A Giorgio Napolitano,

presidente della Repubblica;

Romano Prodi, presidente del Consiglio;

Massimo D'Alema, ministro degli Esteri;

Arturo Parisi, ministro della Difesa;

Clemente Mastella, ministro della Giustizia,

e a tutti gli organi di stampa

 

La magistratura tedesca ha messo la parola fine, probabilmente definitiva, alle inchieste sul massacro dei militari italiani della divisione Acqui a Cefalonia. Ne furono trucidati a tradimento, dopo che avevano alzato bandiera bianca, dai 4.000 ai 5.500. È stato il procuratore di Dortmund, Ulrich Maass, titolare dell'inchiesta aperta il 12 settembre 2001 dall'Ufficio Centrale per la persecuzione dei crimini nazisti, a mettere il suggello definitivo all'inchiesta. Lo ha raccontato sul Manifesto, di sabato 11 agosto, il corrispondente da Berlino dello stesso giornale, Guido Ambrosino, che ha riportato nel suo articolo ciò che gli ha detto Maass: «Contro nessuno dei militari indagati, sei o sette ufficiali ancora in vita, abbiamo trovato elementi sufficienti per sostenere un'accusa di omicidio aggravato come definito dall'art. 211 del codice penale. In assenza di queste aggravanti, l'omicidio cade in prescrizione dopo vent'anni».

Il procuratore di Dortmund non ha usato le stesse parole del suo collega di Monaco di Baviera che aveva equiparato i nostri soldati a “traditori” e “disertori”, ma la sostanza non cambia: non esistono aggravanti specifiche che sono: motivi abbietti; l'uccidere con perfidia o in modo atroce; l'uccidere per poter compiere o occultare un altro reato. Condizioni che, per chi conosce anche superficialmente la storia di Cefalonia, sa benissimo che risultavano perfettamente. I nostri furono uccisi per ordine di Hitler che cercava la sua vendetta contro il popolo italiano completamente incolpevole perché la guerra l'aveva scatenata il dittatore Mussolini i cui camerati poi misero in un angolo (motivi abbietti). Moltissimi militari, come l'allora capitano Amos Pampaloni, furono sparati alle spalle; ad altri ancora si sparò dopo la promessa che se avessero consegnato le armi non gli sarebbe stato fatto nulla di male (l'uccidere con perfidia e in modo atroce). Un gran numero di cadaveri furono gettati in mare o interrati per nasconderli alla vista di tutti; furono poi fucilati i marinai che erano stati costretti a buttare in mare, dopo averle avvolte in filo spinato per appesantirle, le salme dei 137 ufficiali assassinati alla Casetta Rossa (uccidere per occultare un reato). Per questi motivi non fu difficile per il pubblico accusatore di Norimberga, generale Telford Taylor, formulare un giudizio inequivocabile: «Questa strage deliberata di militari italiani che si erano arresi è una delle azioni più disonorevoli e arbitrarie della lunga storia del combattimento armato. Questi uomini, infatti, indossavano regolare uniforme, portavano apertamente le loro armi e seguivano le regole nonché le usanze di guerra. Erano guidati da capi responsabili che nel respingere l'attacco nemico, obbedivano ad ordini del maresciallo Badoglio, loro comandante in capo militare e capo politico debitamente accreditato dalla loro Nazione. Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, considerazione umana e a trattamento cavalleresco».

Per questi motivi il comandante del XXII corpo d'armata, Hubert Lanz, supremo responsabile del vile eccidio di Cefalonia, fu condannato a 12 anni. Ma ne farà solo 3.

Le vittime non ebbero giustizia neanche nel loro paese, cioè l'Italia, perché per ordine di due ministri, Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani, il fascicolo dell'inchiesta, per opportunità politica, di fede NATO (la Germania doveva riarmarsi) finì in quello che ormai viene definito universalmente “armadio della vergogna”. Il fascicolo numero 1.188, secondo la numerazione del “registro degli orrori”, che s'accompagnava a quell'armadio, finì dunque nel sepolcro ideato dalla politica di centro destra, insieme a quelli di altre stragi di militari italiani (Coo, Lero, Spalato, Rodi, eccetera) e di civili come Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, Fivizzano, Capistrello, Conca della Campania e via elencando per la bellezza di 2.272 voci di crimini. Ma ai superstiti di Cefalonia fu riservato un trattamento speciale: gli assassini dei loro compagni rimasero immuni anche da ogni minima citazione giudiziaria, mentre i superstiti furono processati (l'accusa voleva sostenere che avessero subornato il loro comandante, generale Antonio Gandin, anche lui fucilato dai nazisti, convincendolo a non consegnare le armi). Ma siccome tutto ha un limite, persino in Italia, il processo a loro carico finì con l'assoluzione.

Ma ora in Germania, sono stati assolti, in un certo senso, pure gli assassini, anche perché a presentarsi come parte civile, al processo di Monaco – procuratore era quello Stern che se ne uscì con gli epiteti più ingiuriosi e immotivati contro i nostri soldati – è stata soltanto Marcella De Negri.

L'Italia ufficiale, di governo e politica, era assente, non solo, ma neanche ha fatto sentire la sua voce. Assenti anche le varie associazioni. Perché questa totale indifferenza? E a cosa servono, allora, le cerimonie commemorative se si cerca di evitare l'elementare riparazione all'ingiuria subita dal nostro popolo?

Ma la notizia più traumatica e scioccante data da Ambrosino è un'altra: il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano avrebbe rifiutato nel 2003 l'offerta formulatagli personalmente dallo stesso Maass, probabilmente presagendo quel che sarebbe successo in casa tedesca, di fargli avere tutte le sue risultanze sul caso, compresi i nuovi nomi degli assassini ancora in vita emersi dopo una lunga serie di indagini. La risposta fu un netto rifiuto. Possibile che non si sia voluto riaprire l'inchiesta in Italia? Eppure Intelisano è magistrato al di sopra di ogni sospetto, lo ha dimostrato, tra l'altro, con l'incriminazione e la condanna di Erich Priebke. ...Ma, a questo punto, le personalità del nostro Stato cui ci rivolgiamo e l'informazione nel suo insieme debbono fare tutto quanto è in loro potere, ed anche di più, affinché venga messo un punto fermo su questa immane tragedia che qualcuno o molti stanno mutando in vergognosa buffonata. Se anche i nostri governanti vogliono mettere la parola fine a questo nostro passato, come i tedeschi, abbiano il coraggio di dirlo. Altrimenti si dica e si faccia, con la stessa chiarezza, quello che è un dovere di tutti: giustizia.

 

Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri (fucilato a Cefalonia)

Franco Giustolisi, giornalista, autore dell'Armadio della vergogna

 

Milano - Roma, 16 agosto 2007

 

 

Sull'argomento, per riprendere i punti essenziali della vicenda, vi proponiamo questa utile scheda presa dalla rubrica “Risfogliando pagine di storia” che Luigi Fistolera cura per 'l Gazetin:

 

La strage di Cefalonia

 

Traendo spunto dalla storia di Abele Ambrosini, di Dubino, che fu ucciso nella strage di Cefalonia, colgo l'occasione per parlare di quell'eccidio. Abele Ambrosini nacque a Sondrio nel 1915. Nel '36 conseguì il diploma di geometra; nel '37 fu ammesso al Corso Allievi Ufficiali d'Artiglieria e nel '38 viene assegnato all'Ottavo Reggimento di Artiglieria divisionale, dove fu promosso sottotenente il 1° ottobre dello stesso anno. Fu trattenuto alle armi dal 15 agosto 1939 e assegnato alla divisione Acqui, partecipando alla “Campagna d'Albania” nell'ambito della quale venne insignito della croce d'oro al valor militare. Promosso tenente il 1° gennaio 1942, assunse il comando di una batteria di un gruppo del reggimento.

L'8 settembre del '43, il giorno dell'armistizio che sanciva la cobelligeranza dell'Italia con le democrazie occidentali, Abele Ambrosini si trovava a Cefalonia, piccola isola dell'Egeo, con la divisione Acqui, che era composta da 525 ufficiali e 11.500 soldati. Essa si trovò davanti al dilemma se dover cedere le armi o resistere a oltranza, senza alcun aiuto esterno. Tra il 9 e l'11 settembre si svolsero trattative tra Gandin, generale dell'Acqui, e il tenente colonnello Barge, che intanto riempiva l'isola di truppe tedesche. L'11 settembre i Tedeschi inviarono un ultimatum, pretendendo che gli Italiani cedessero le armi. All'alba del 13 settembre batterie italiane iniziarono a sparare sui Tedeschi che continuavano a sbarcare. Barge rispose rinnovando l'ultimatum e promettendo il rimpatrio degli Italiani, una volta che si fossero arresi.

Gandin allora indì un referendum tra i soldati, chiedendo di scegliere tra alleanza con i Tedeschi, resistenza o cessione delle armi. Fu approvata all'unanimità la resistenza. Il 15 settembre ebbe inizio la battaglia, che durò fino al 22 settembre (Abele Ambrosini venne fucilato il 21) e nella quale i soldati italiani furono bombardati dagli aerei Stukas. Nonostante il coraggio, la città di Argastoli fu distrutta, 65 ufficiali e 1.250 soldati caduti in combattimento. L'Acqui si arrese e la vendetta tedesca fu terribile. Il Comando superiore tedesco affermò che tutti i soldati nella divisione Gandin dovevano essere massacrati per ordine del Führer, Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena, 600 italiani uccisi in una scuola a colpi di mitragliatrice, 360 ufficiali uccisi in un cortile attiguo. Il generale Lane, fra l'altro, giustificherà l'eccidio dicendo che l'ordine veniva direttamente da Hitler. Comunque, alla fine risulteranno 5.000 soldati massacrati, che verranno insigniti con la medaglia d'oro al valor militare, 446 ufficiali, 2.000 superstiti scaricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, che scompariranno in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, divisione Acqui distrutta. I superstiti si costituirono in un gruppo partigiano col nome di “Banditi dell'Acqui” che si mise in contatto con i partigiani greci e fornì importanti notizie agli Alleati.

Come si sa, la vicenda fu affossata in Italia in nome della ragion di Stato. Infatti, dopo la guerra i familiari delle vittime chiesero che i 30 rappresentanti dell'esercito tedesco, autori dell'eccidio, venissero processati, ma la politica non permise la celebrazione di tale processo. Nell'ottobre 1956 il liberale Gaetano Martino, ministro degli Esteri, scrisse al democristiano Taviani, ministro della Difesa, chiedendo l'affossamento dell'inchiesta affinché l'esercito tedesco potesse risorgere in chiave anti-russa e Taviani acconsentì a creare quello che più tardi lui stesso definì «la sepoltura della giustizia», adducendo come giustificazione che così bisognava agire a causa della guerra fredda. Per l'appunto nel '56 l'URSS stava invadendo l'Ungheria e un indebolimento del nascente esercito tedesco sarebbe stato improponibile.

Concludendo, a tutt'oggi, nel 2007, di questa strage non si è fatta giustizia e, ancora recentemente, un tribunale tedesco ha affermato che non si può procedere alla celebrazione di un processo, avendo gli Italiani lo status di “traditori dell'alleato tedesco”. Ogni commento è superfluo.

 

Luigi Fistolera

(da 'l Gazetin, marzo 2007)


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