Lo scaffale di Tellus
Ivana Cenci: Sulla necessità della parola poetica.
Cagnacci: Allegoria
Cagnacci: Allegoria 
12 Giugno 2007
 

Desidero allacciarmi alla significativa affermazione espressa da Flavio Ermini nella premessa al suo volume: Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità (Moretti & Vitali, 2006), dove asserisce che l’esistenza di ognuno, così come il cammino dell’umanità, testimonia che la dimensione dell’essere nel mondo è costituita dal dolore dell’esistere. Questa prima frase dà il la a tutto il percorso, rispetto al quale il volume stesso costituisce esperienza e testimonianza. Trovo questa affermazione estremamente coraggiosa, come coraggioso e significativo trovo il procedere dell’autore, che si interroga con estremo rigore, senza usare paraventi e senza aggrapparsi ad illusioni di sorta sulla condizione della vita umana, sperimentando un linguaggio poetico-narrativo che, se da un lato non può che confermare la frattura esistente fra l’uomo e il mondo, proprio per l’ardire e l’autenticità del suo osare e il suo permanere sul crinale sempre in bilico proprio della scrittura poetica, gli permette di approdare ad un sapere finora non esplicitato e a considerazioni originali degne di nota. Ermini fa una riflessione sulla vanità e limitatezza del dire, indicandone nel contempo l’irrinunciabile, paradossale necessità.

 

Quando interroghiamo un’opera d’arte ci confrontiamo immediatamente con il dolore e incontriamo la lacerazione che l’artista, qualunque sia il mezzo che egli utilizza per esprimerla, vive e rispetto alla quale il suo lavoro è un modo, una risorsa, lo strumento attraverso il quale egli cerca di trovare un’articolazione, una posizione che non sia di passivo assoggettamento e di pura sottomissione.

Con l’avvento della storia, e l’instaurarsi del linguaggio, questa lacerazione ha preso corpo in maniera palese e definitiva: qualsiasi forma di scrittura, incluse le arti visive, l’architettura, la musica, la danza e tutto ciò che implica un gesto e che fa segno, non fa che dire e annunciare, nel farsi del gesto, questa lacerazione che l’essere umano avverte fra sé e l’altro da sé, fra il suo sentire e la limitatezza del dire, quello che l’uno vuole esprimere essendo ciascuna volta, irrimediabilmente e per sempre separato e diverso da quello che gli altri colgono, del suo dire.

Da qui, l’impossibilità di vera comunicazione, di vera vicinanza con l’altro e la consapevolezza di non poter mai, per quanti sforzi l’essere umano si industri a fare, valicare quel limite e, dunque, l’impossibilità di dire fino in fondo il proprio dolore, l’insopportabile condizione di sentirsi separato e di non poter nemmeno dire compiutamente la sofferenza per questa separazione.

L’uomo, trovandosi a dover fare i conti con l’illimitatezza del proprio desiderio e i limiti, ripetuti e insuperabili, che l’esistere oppone alle sue aspirazioni, talvolta fa ricorso alla illusione, tanto è vero che tramite gli studi e la ricerca scientifica, matematica, astronomica, filosofica o alchemica, dalla notte dei tempi non smette di inseguire il sogno di trovare il segreto che gli permetta di accedere all’immortalità.

Quello che fa il poeta, invece, a volte rendendosene conto, altre no, comunque mai pienamente durante il lavoro di scrittura, semmai après coup, va in un’altra direzione, poiché il poeta, con la sua opera, utilizzando i mezzi espressivi propri della scrittura poetica, rende evidente e rimanda in continuazione a qualunque lettore, se stesso compreso, la lacerazione di cui abbiamo parlato. La scrittura poetica, per la polivalenza di senso che la caratterizza, rende visibile agli occhi di tutti, portandola all’ennesima potenza, la divisione immane che si produce fra un individuo e l’altro, fra l’essere e il mondo circostante e, fra una parte dell’individuo e l’altra che, attraverso la scrittura, viene ad emergere, e di cui prima egli stesso non sapeva.

Attraverso la nominazione poetica l’immensa ombra che ci abita si fa presente alla coscienza, dice Flavio Ermini, e solo l’attraversamento dell’ombra permette il passaggio di confine che ci separa da noi stessi. Questo, a condizione che nel suo procedere il poeta rinunci al controllo e a una pretesa di manipolazione dei contenuti che emergono, permettendo al suo linguaggio di inoltrarsi, appunto, nell’ombra, per lasciar emergere quello di cui ancora non sa. Il viaggio del poeta è un modo di accostarsi alle cose che non risponde alle regole della logica, è un procedere incerto, consapevole del limite e, di conseguenza, un affidarsi ad un sapere ancora da scoprire e che, soltanto dopo si può tentare di cogliere, di decifrare, e sempre soltanto a brandelli. E’, sempre utilizzando un’immagine suggerita da Ermini, uno stare sulla soglia, sapendo di non poter inventariare la verità se non in modo frammentario.

 

Poste queste considerazioni, la domanda che mi sorge, irrefrenabile e insistente, è questa: è davvero necessaria la poesia? E, ipotizzando una risposta affermativa, in quale modo il linguaggio poetico viene incontro all’istanza, sempre presente nell’uomo, di tentare di dare un argine alla sofferenza per la propria limitatezza?

Come può accadere che, attraverso uno strumento e un procedere che, anziché nasconderla o negarla, quella limitatezza la mettono in evidenza e la rendono più nitida e manifesta che mai, l’uomo possa trovare una dimensione, un modo che lo faccia sentire meno sconfitto, meno disperso nella realtà dolorosa della propria esistenza? E meno consegnato definitivamente alla rovina?

La risposta, che è anche una speranza, possibile, per quello che personalmente ho potuto incontrare, scrivendo, leggendo poesia, traducendola e occupandomi di questo laboratorio di lettura poetica che, necessariamente mantiene sempre presente questa questione, è quella di colui che, preso atto dell’esistenza e ineluttabilità del limite, si mette in cammino e accetta la sfida di incontrarlo, di percorrerlo, di indagarlo al fine di ridurre lo spazio incommensurabile che lo separa dall’ignoto di cui ha paura, provando a comprenderne qualcosa. Lasciar emergere l’insaputo che è in qualche misura presente in ciascuno di noi e che si dà attraverso la scrittura, e poterlo guardare e rapportarvisi con atteggiamento attivo è quello che fa il poeta. Potremmo dire che è esattamente quanto fa ciascun artista nel dare voce ed espressione alla propria lacerazione e alla sete di infinitezza attraverso la sua opera, con la precisazione, tuttavia, che la parola poetica parla, chiama e richiama, e interroga in maniera talmente diretta e inappellabile da non permettere mediazioni o distrazioni, né intrattenimenti di sorta.

Se, come indicavo prima, il linguaggio poetico è uno strumento atto a far emergere la verità della nostra condizione, questo tentativo può dirsi tanto più riuscito nella misura in cui questa verità è mostrata il più nitidamente e autenticamente possibile, permettendo un procedere eretto e non piegato nel faccia a faccia con la realtà e i limiti che questa comporta.

Questo, ovviamente, vale per il poeta, per colui che sceglie di intraprendere questo viaggio e di affidarsi all’aperto, alle incognite e alle sorprese, all’inconosciuto che lungo il farsi del suo viaggio, come ogni vero viaggiatore, incontrerà. Per il lettore, per colui che, consapevolmente o meno va a trovare tracce di verità e di sé fra i versi o le righe di chi ha usato la scrittura, c’è il vantaggio di potersi avvalere di uno stimolo e di trovare un supporto su cui appoggiare il proprio desiderio di sapere, di conoscere e conoscersi, senza sentirsi inesorabilmente solo di fronte alla verità e ai suoi aspetti anche crudeli. Trovare riscontro fra quei versi o su quelle pagine di qualcosa che lo riguarda è per lui come guardarsi in uno specchio, riconoscersi e sentirsi riconosciuto, percepire che è esistito o esiste sulla faccia della terra qualcuno che ha vissuto e sentito, o vive qualcosa di simile a lui, e che ha saputo e potuto sopravvivere e far fronte alla lacerazione e al dolore al punto da assumere una posizione e darne testimonianza.

In questo senso, la rigorosa, accurata e per certi versi inesorabile ricerca condotta da Flavio Ermini, utilizzando strumenti e linguaggio e seguendo un procedere così vicini a quelli propri della poesia, si propone senz’altro come occasione di stimolo e testimonianza rispetto alla sete di indagine e conoscenza di chi è curioso di sé e della vita, ed anche come valido riferimento e consistente appoggio per chi desidera inoltrarsi nell’ombra, fidando di potersi avvalere di una presenza in guisa di Virgilio al suo fianco.

 

Ivana Cenci


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