Lo scaffale di Tellus
Alejandro Torreguitart Ruiz: Aspettando il tornado (Bozzetti avaneri 5)
02 Giugno 2007
 

Dicono che sta per arrivare un tornado. Però Calviño ci ha rassicurato ieri sera alla televisione, poco prima che parlasse Fidel. Calviño è el hombre del tiempo, lo chiamano tutti così per via della testa completamente pelata.

Il tornado sta sorvolando i mari del sud e lambirà le coste occidentali scaricando la sua forza nell’oceano poco a largo di Miami”.

Bene - ho pensato - allora non ci riguarda.

Però - ha continuato Calviño - farà danni all’Avana. Si prevedono raffiche di vento sui duecento chilometri orari. La popolazione è invitata a seguire le istruzioni che verranno impartite dalle autorità”.

Allora - ho pensato - questo cazzo di tornado è pericoloso. Può danneggiare le case, addirittura distruggere quelle più malandate. La mia già cade a pezzi da sola, basta poco per completare l’opera.

È da ieri che ci penso al tornado. Di solito gli danno i nomi più strani, quasi dei vezzeggiativi, come se chiamarlo con dolcezza placasse la sua furia, un po’ come si fa con i cani pericolosi. Flora, El niño, Felix… questo lo hanno chiamato Pepe.

Un tornado che arriva non ti fa pensare ad altro. C’è chi implora la Vergine di Regla o San Lazzaro e chiede su di sé la protezione divina. Radio Reloj alterna bolero e salsa a notizie meteorologiche mentre si assicurano i coperchi dei serbatoi d’acqua e le tegole dei tetti con doppie mandate di filo di ferro. Vedo gente tagliare i rami frondosi delle piante più alte che circondano le loro case, altri che caricano televisori ed elettrodomestici su auto scassate, altri ancora che sigillano finestre e porte con assi di legno inchiodate. Portano in salvo il salvabile. Vestiti, lenzuola, persino materassi. Chi non riesce a portare via niente accatasta in casa le cose di valore, i mobili migliori, lega tutto saldamente e prega San Lazzaro. Quelli che vivono nelle case di legno hanno poche speranze di ritrovare qualcosa e si affrettano insieme agli altri disperati per raggiungere i rifugi assegnati. Centri militari e scuole raccolgono un esercito di futuri senza tetto. Si fanno scorte di rum. Quello non può mancare. Tornado di merda. Ci siamo abituati da sempre, conviviamo con questa maledizione del cielo, eppure ogni volta è come la prima volta. Non ci cambia il carattere, non manda Cuba alla deriva come vorrebbe qualcuno, però rompe le palle. Questo sì.

Io voglio fare ciò che voglio della mia vita - penso - non quello che per gli altri dovrebbe essere il mio dovere. Nessuno deve decidere per me.

E tra le cose che voglio fare c’è anche scrivere. Non porterà a niente? Bene. Sarà sempre meglio che pulire il culo a un turista o lavorare per Fidel. Neppure un tornado può cambiarmi la vita. Tutt’al più mi rimanda i progetti. Non andrò da Juliana. Non lavorerò al romanzo. Prima che faccia notte dovrò andare anch’io al rifugio. Soltanto questo.

Per ora passeggio tra lo squallore dell’Avenida del Puerto e penso che magari questo fottuto tornado mi distrugge la casa e seppellisce mesi di lavoro sotto le macerie, oppure mi vola nel vento la prima stesura. E dopo cosa racconto all’editore italiano? Che avevo tante buone idee ma un tornado me le ha spazzate via? Frugo tra miseria e disperazione di strade deserte, neppure in balia dei ladri che funestano L’Avana nei giorni di tornado. Qui non c’è niente che valga la pena rubare. La polizia ha evacuato la zona. Dicono che ci sia pericolo rosso. Gli abitanti di queste catapecchie, che una volta servivano soltanto a scopare con le puttane del porto, sono stati trasferiti alla secondaria Manuel Ascunze. In attesa che il tornado passi, hanno detto. Anche mio padre e mia madre sono stati assegnati a quella scuola. Ci andrò anch’io certo. Ma c’è tempo ancora. Intanto calpesto la desolazione dell’Avenida del Puerto e osservo brandelli di rifiuti affacciarsi da cassonetti che presto voleranno nel vento, cani che sembrano intuire il pericolo e abbaiano con furore all’umidità che si fa largo nell’aria del mattino. Poi li vedo che frugano a caccia di quello che non troveranno tra carcasse di rifiuti, perché qui non si getta niente che non sia proprio da buttare. So che tra poco voleranno anche loro nel cielo tra i rami divelti dagli alberi e il pulviscolo della terra percossa da raffiche furenti. Non avranno più motivo di cercare, mi dico.

La baia dell’Avana pare triste anche lei stamattina, tra le baracche della povera gente e le nubi nere che minacciano il peggio. Il cielo azzurro terso e limpido è soltanto un ricordo, lo scintillio dei colori ha lasciato il posto alla furia della natura. Tuoni che scuotono il silenzio, lampi di pioggia e il vento, il maledetto vento che incalza sempre più. Osservo il cielo. Tenebroso spettacolo di morte sulla vecchia Avana. Questa città non ha bisogno di un tornado per cadere a pezzi. Lui le dà soltanto una mano. E io aspetto. Nel silenzio spettrale dell’Avenida del Puerto, con la mente rivolta al mio romanzo da finire e un occhio alla disperazione che mi circonda. Tra breve arriveranno le raffiche di vento solido e ostinato e voleranno cani e cassonetti e ricordi. Sì, persino i ricordi. Ondate di pioggia si abbatteranno su finestre divelte e distruggeranno ostacoli come sciabolate furenti che vengono dal cielo. Le prime raffiche umide mi sconvolgono i capelli e sollevano da terra le mie gambe. Adesso cammino rapido, le cime degli alberi che si agitano più dei miei pensieri e il grigio profondo della tempesta prepara una notte di burrasca.

Non andrò alla deriva neppure io, neppure questa volta.

Non andrà alla deriva la mia terra.

Berremo rum e ci ubriacheremo come dei pazzi nelle baracche della scuola. Giocheremo a  domino e balleremo con le nostre donne tristi boleri spagnoli. E penseremo a lui, certo. Al maledetto tornado.

Per adesso sono qui che mi faccio spingere dal vento sull’Avenida del Puerto e lo attendo. Attendo il tornado come un nemico invisibile e un furibondo dio del male. Attendo il tornado, quasi fosse Godot.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz


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