Lo scaffale di Tellus
“La scomparsa dei fatti” di Marco Travaglio 
Per un approfondimento sul mestiere del giornalista
29 Aprile 2007
 

Marco Travaglio

La scomparsa dei fatti

Il Saggiatore, 2006, pagg. 303, € 15,00

 

Ad essere indagato, in questo libro di Marco Travaglio La scomparsa dei fatti, è il giornalismo d’oggi, in Italia. Ne esce, conviene affermarlo fin da subito, una situazione allarmante e sconsolante.

Non per tutti, certamente. Ancora una volta e sempre, per chi nutra dentro di sé un minimo di senso civico e amor della verità. La verità, lo sappiamo, è concetto ampio e difficile da definire. Così si dice. La verità non è mai una sola ed è soggetta a cambiamenti… Ma sarà davvero così? Nell’analisi lucidissima e particolareggiata in ogni esempio e circostanza prese di mira da Travaglio la verità è, invece, una sola: quella dei Fatti. Sono i fatti, la realtà dell’accaduto, nel momento in cui accade (non prima) a dettare la traiettoria da seguire per il buon giornalista.

Perché il giornalista che fa con coscienza il proprio lavoro è colui che racconta i fatti; non dà voce ad opinioni, non è asservito al potere, non accetta il guinzaglio del cane da compagnia di chi comanda. «Senza fatti si può sostenere tutto e il contrario di tutto» afferma nell’incipit Travaglio, «con i fatti, no».

La scena che viene dipinta è un’altra: il giornalismo in Italia, secondo l’autore, è sempre più prossimo al bufalificio, con rare - e menzionate - eccezioni. I fatti vengono sistematicamente nascosti, per non disturbare le opinioni di chi conta e vengono nascosti per mille motivi: «c’è chi nasconde i fatti perché è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di informarsi, di aggiornarsi; c’è chi nasconde i fatti perché non vuole rogne, perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore stufo di pagare gli avvocati per qualche rompicoglioni in redazione; c’è chi nasconde i fatti perché fa il tifo per un partito o una coalizione, non vuole disturbare il manovratore; c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in televisione; c’è chi nasconde i fatti perché i servizi segreti lo pagano apposta; c’è chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono la pubblicità al giornale».

E per Travaglio c’è anche chi nasconde i fatti a se stesso, per paura di dover cambiare opinione.

Mille motivi, si è detto; in fondo uno solo, e paradossale: si nascondono i fatti perché altrimenti poi la gente capisce tutto.

L’autore racconta di come per lui avvenne la presa di coscienza definitiva di quanto, nel giornalismo in Italia, la scomparsa dei fatti stesse drammaticamente prendendo il via: fu all’indomani della puntata di “Satyricon” dove Daniele Luttazzi lo aveva invitato a presentare L’odore dei soldi, scritto con Elio Veltri per Editori Riuniti. (In tutta questa spinosa faccenda ha avuto un ruolo suo malgrado anche la nostra Vanna Mottarelli, come ricorderanno i lettori più attenti de ‘l Gazetin, grazie alle sue valutazioni scritte, d’esperta commercialista, circa l’operato dell’allora ministro Tremonti, poi inserite dagli autori nel libro in questione – nda). In esso veniva proposto un insieme di documenti, alcuni giudiziari altri finanziari, sulle origini delle fortune di Silvio Berlusconi, l’uomo che stava per diventare – anzi ridiventare secondo tutti i sondaggi – presidente del Consiglio. Era un materiale esplosivo e sconosciuto. «Mi era parso naturale, facendo il giornalista, mettere in grado i cittadini elettori di sapere di più circa l’uomo che stava per mettersi in tasca l’Italia».

Il libro vendette in due settimane 18.000 copie (poi divenute 350.000), durante le quali non si ebbe alcuna smentita e nessuna querela.

Dopo averne parlato quella sera, in seconda serata, su Rai2, si scatenò il putiferio. La cosa sconcertante per Travaglio non fu la reazione, immaginabile, bensì le argomentazioni addotte: non obiezioni sulla veridicità di quanto scritto ma disquisizioni sull’opportunità di scriverne, veri e propri deliri che affermavano che certe cose non andavano dette, non su una rete pubblica, non a due mesi dalle elezioni, non in un programma di satira ecc. Seguirono dieci atti di imputazione per danneggiamento dell’immagine e onorabilità di Berlusconi, Tremonti, Forza Italia, Fininvest e Mediaset. (sette conclusisi con l’assoluzione). E i fatti? Erano scomparsi. Veri, autentici, comprovati, ma evidentemente inenarrabili.

Ma c’è molto altro ne La scomparsa dei fatti: tutta l’epopea di Tangentopoli, le farneticazioni circa le presunte armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, senza che peraltro nessuno le abbia mai trovate, lo scandalo di Calciopoli e Vallettopoli, la denuncia di un apparato di disinformatija che mira a far passare per vere notizie che con semplice cura e poco dispendio di mezzi ed energie qualsiasi giornalista potrebbe smascherare.

C’è l’opportunismo, che ancora una volta si salda col potere e le sue direttive, che determina gli scoop del momento, si tratti una volta della mucca pazza, o dell’influenza aviaria o ancora del presunto giustizialismo della magistratura e via a spron battuto. Intanto si occultano le faccende serie. Quante ne abbiamo bevute! Con dati alla mano, titoli di giornali, esempi di articoli Travaglio non lascia nulla al caso e non concede sponda a chi possa affermare “lo dici tu”: nel libro i fatti ci sono, ogni pagina trasuda accadimenti di cui man mano il lettore torna a ricordarsi. E accade spesso di scoprire quanto i fatti nudi e crudi siano stati spesso manipolati e certe parole si siano inspiegabilmente (ma le spiegazioni ci sono, eccome) mutate in altre.

«Non si parla più di ladri, ma si preferiscono altri termini, di solito soavissimi. Ma un ladro è un ladro, sia che rubi nei supermercati per sfamare la sua povera famiglia, sia (a maggior ragione) che rubi ai cittadini sotto forma di tangenti, come Craxi e compagnia bella; o ai risparmiatori con bond fasulli, come Tanzi e i suoi complici banchieri; o agli azionisti, come i truccatori di bilanci; o ai contribuenti, come gli evasori fiscali; o direttamente ai suoi correntisti, come Fiorani, patron della Popolare di Lodi. (…) Del resto lo diceva già Trilussa: la serva è ladra, la padrona è cleptomane».

Che dire poi di quando la più parte della stampa ha titolato la chiusura del processo Andreotti con la parola assoluzione? In quanti siamo consapevoli che non di questo si è trattato, bensì di una sentenza che ha riconosciuto la colpevolezza di Andreotti, provata fino al 1980, per il delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra insieme non già, come ovvio, a un’assoluzione ma alla prescrizione? In quanti ci si ricorda che per Craxi, Previti, Dell’Utri, Forlani, Martelli, Pomicino, De Michelis, De Lorenzo, Carra, Romiti, Ligresti ed altri ancora sono intervenute, in Cassazione, condanne definitive?

Marco Travaglio ci racconta di giornalisti che preferiscono alimentare il coro di chi parla di sentenze politiche, altri che fanno mea culpa per aver proferito parole e osservazioni contro a quegli imputati, che invece in seguito hanno ravvisato come “perseguitati e poveretti”, inchiodati a calvari processuali interminabili,di giornalisti che si accordano coi potenti di turno circa le domande da porre e gli intervistatori e ospiti di cui circondarsi in note trasmissioni televisive (uno fra tutti Bruno Vespa, in più pagine citate da Travaglio, con un “rispolveramento” a beneficio dei lettori di sue inquietanti intercettazioni telefoniche…), altri che creano notizie rivelatesi in seguito solenni menzogne ai danni di questo o quel personaggio politico, sempre in obbedienza al potere più prossimo e ad annesse convenienze personali.

Tutto il gotha del giornalismo italiano è citato dall’autore, con le varie prese di posizione, le rare seppur meritatissime sanzioni dell’Ordine dei Giornalisti (anche per quest’ultimo molte sono le pecche osservate da Travaglio): da Feltri a Ferrara, da Allam a Antonio Polito, dalla Palombelli alla Armeni, da Mimun a Rossella, Fede, Mentana, Floris e molti altri.

Ad emergere sugli altri come rari esempi di buon giornalismo, Montanelli – verso cui l’ammirazione di Travaglio non è mai stata un mistero – Bocca, Scalfari, Zavoli, Gabanelli, Beha, Santoro, Ruotolo, Ferrarella, Barbacetto…

Interessante per gli argomenti proposti, tutti di stringente attualità ed alcuni con radici più lontane nel passato ma ramificazioni ancora potenti, La scomparsa dei fatti enuncia anche un punto di vista originale: l’importanza imprescindibile che si deve dare all’imparzialità, un’imparzialità che non è sinonimo né di obiettività né di neutralità. «L’obiettività è impossibile: ciascuno di noi nasce con i suoi interessi e le sue passioni, e cresce educato a certi valori. La sua visione del mondo è un’impronta originale che condiziona il suo modo di vedere le cose e di giudicarle di conseguenza». Nemmeno essere neutrali in questo mestiere è lecito; non si può partecipare agli eventi senza un coinvolgimento diretto. Di fronte ad uno stesso fatto, dunque, ci potranno essere visioni diverse, l’evento sarà raccontato con modalità differenti, ma se il nucleo centrale dello stesso verrà rispettato (le famose quattro “w” del giornalismo anglosassone: who, what, where, when – chi, che cosa, dove, quando) ne risulterà un arricchimento per il fruitore della notizia, non un pericolo. Questo si chiama pluralismo ed è valore da difendere, in democrazia.

 

 

Marco Travaglio scrive su Repubblica, l’Unità e Micromega. Tra le sue opere, Bananas (Garzanti, 2003), Montanelli e il Cavaliere (Garzanti, 2004), Berluscomiche (Garzanti, 2005). Con Saverio Lodato, Intoccabili (Bur, 2005). Con Peter Gomez, Regime (Bur, 2004), Inciucio (Bur, 2005), Le mille balle blu (Bur, 2005) e Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006).

Per saperne di più o visionare il frequentatissimo forum:

www.marcotravaglio.it

 

Annagloria Del Piano

(per 'l Gazetin, maggio 2007)


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