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Sergio Caivano. Piero Galimberti, militare internato in Germania
06 Gennaio 2024
 

Toscano di Castel Fiorentino, Piero Galimberti, ancora ragazzo, si trasferisce con la famiglia a Genova. L’Italia entra in guerra, e in città la fame comincia a farsi sentire, anche nella sua famiglia relativamente agiata. Subito dopo la chiamata alle armi della sua classe, quella del 1923, viene inviato in Grecia. Fa parte del genio militare quando l’armistizio dell’8 settembre 1943, appreso dalla radio, coglie di sorpresa lui ed i suoi commilitoni, incerti sul da farsi. Ma non hanno il tempo di chiarirsi le idee. Un nutrito contingente tedesco provvede subito a disarmarli e, senza alcuna spiegazione, li carica su di un carro merci stracolmo di soldati italiani. Comincia così l’odissea di Piero.

In due giorni e due notti di viaggio attraversano la Grecia, la Bulgaria e l’Austria, dopo esser stati perquisiti e privati dei loro effetti personali. Li portano in un grande campo di raccolta, assegnano a ciascuno un numero, li smistano verso diversi campi di lavoro. Piero va a lavorare in Polonia, a Kattovice. Qui i tedeschi promettono cibo, libertà e il rientro in Italia per chi aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Al momento nessuno aderisce alla richiesta. Ma quando, dopo un certo tempo, l’invito viene nuovamente ripetuto, qualcuno cede alla fame e dice di sì, ritornando subito dopo con la gavetta piena di cibo. Nella testimonianza resa a Pier Luigi Zenoni si legge: “Alcuni finirono per aderire alla Monterosa. Lo facevano non per convinzione personale, ma perché non riuscivano più a sopportare i morsi della fame. Vedere, mentre eravamo in fila da ore in attesa di un po’ di brodaglia, che chi accettava il reclutamento usciva dalle cucine con le gavette piene di cibo era una tentazione grande. La fame, quando diventa allucinante, dallo stomaco passa a prenderti il cervello e il pensiero di procacciarti del cibo diventa un’ossessione fissa” (Pier Luigi Zenoni, Valtellinesi schiavi di Hitler, Cgil-Spi, Bettini, Sondrio, 2012, pp. 104-107).

Piero resiste alle provocazioni, aiutato da tre compagni di prigionia. Assiste all’impazzimento di alcuni militari. Poi, quando i russi si stanno avvicinando, vengono trasferiti ad Essen, in una scuola diroccata, dove devono ancora spalare macerie. “Una sera i tedeschi ci dissero che il giorno dopo saremmo stati trasferiti anche da Essen. Nella stessa notte io, Giancarlo e Giorgio (i suoi amici, ndr) fuggimmo e ci riparammo nel sotterraneo di una chiesa diroccata. Il piccolo sotterraneo era semi allagato, dormivamo su strutture di legno rialzate. Quando sentimmo scendere dagli scalini di legno che portavano ai sotterranei del campanile le SS… si fermarono tre cuori. Dopo una rapida ispezione con la torcia, i tedeschi decisero che non poteva esserci nessuno in quel pantano e noi fummo salvi. Dopo giorni d’attesa, quando fummo sicuri che i tedeschi se n’erano andati, tornammo alla scuola e vedemmo un Arcangelo Gabriele che masticava una cicca: era un ufficiale americano!”

Dopo ulteriori peripezie, dal campo di raccolta, per via mare, vengono sbarcati a Livorno. Piero riabbraccia la madre, nel frattempo trasferitasi a Tresenda. Trova posto, come impiegato, presso l’Inps di Sondrio. Quando, molti anni dopo, va in pensione, fa quello che ha sempre desiderato. Compra un camper e gira per ogni angolo della terra assieme a sua moglie. Continua a giocare a tennis fino a 94 anni.

 

Sergio Caivano


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