Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. “Gabbiani nella tempesta” di Einar Kárason
27 Marzo 2021
 

Einar Kárason

Gabbiani nella tempesta

Traduzione di Stefano Rosatti

Einaudi, 2020, pp. 128, € 15,00

 

Nel febbraio del 1959 alcuni pescherecci islandesi si imbatterono in una tempesta nella zona di mare al largo dell’isola di Terranova. Quello che accadde laggiù è la scintilla che ha dato il via a questa storia”. È quanto si precisa prima di far partire il nostro peschereccio.

Einar Kárason sembra aver fatto parte lui stesso dell’equipaggio della Máfur, il peschereccio islandese con i trentadue uomini che si è trovato nel cuore della tempesta, tanta è la sua conoscenza del linguaggio marinaresco, delle manovre, delle condizioni di navigazione, dei venti, della zona di pesca e di ogni minima parte dell’imbarcazione. Del resto per chi è nato a Reykjavik come lui -considerato uno dei più importanti scrittori islandesi contemporanei- la conoscenza della vita di mare è naturale, sia per esperienza diretta, sia perché appartiene alla storia di famiglia.

Ma soprattutto Karáson si dimostra un fine conoscitore dell’animo umano, che sa cogliere l’audacia e il coraggio, ma anche la paura e la disperazione.

Non la esprimono a parole la paura, ma la annegano nell’alcool. Qualcuno è trascinato a braccia dai compagni, ubriaco fradicio anche se esperto marinaio. Ci sono giovani che si imbarcano emozionati e sicuri, oggetto d’orgoglio dei padri e di timore delle madri. Ad ogni peschereccio che salpa inizia la trepidazione dell’attesa, perché il mare è inaffidabile, e talora non bastano le attrezzature idonee e l’esperienza.

Il mare purtroppo non perdona quando le onde arrivano anche a venti metri spinte da un vento impetuoso e urlante, ricoprono l’imbarcazione, e l’acqua si congela non appena tocca la superficie.

È questo che succede alla Máfur nel mare intorno a Terranova, dopo che la tempesta si è scatenata la mattina di un sabato, ogni parte ricoperta da un alto strato di ghiaccio, ogni cavo trasformato in una colonna bianca, la prua impraticabile e pericolosissima.

Il peso del ghiaccio e l’urto continuo delle ondate gigantesche fanno inclinare il peschereccio, fanno immergere la prua, mentre il capitano di vedetta ad una piccola finestra grida: onda!, perché i suoi uomini si aggrappino a qualcosa o comunque si proteggano quando arriva l’ondata. Cadere in acqua significherebbe la morte per assideramento entro pochi minuti.

È una zona maledetta, quella dove la Máfur è arrivata per pescare scorfano atlantico, e le stive sono quasi piene e si dovrebbe volgere la prua per il rientro, ma la tempesta non accenna a tacere, continua per giorni.

Per alleggerire il peschereccio e rendere possibili le manovre si deve a prendere a mazzate ogni massa di ghiaccio, staccarne un pezzo alla volta, che poi scivola sul ponte e travolge finché non si trova il modo di spingerlo in mare. Anche le scialuppe sono diventate masse indistinte e pesanti, non è facile sganciarle, ma si deve trovare ogni soluzione per salvare la vita. Impossibile contare su altre imbarcazioni in zona, ognuna più o meno nelle stesse condizioni, alcune già affondate, poche fortunate già in navigazione in acque più calde. I marinai sanno bene che è la zona della fine del Titanic. Fortuna che il motore ancora resiste.

Non è concesso il riposo, solo poche ore in mezzo a turni di lavoro lunghissimi, fino all’esaurimento delle forze, fino ad avere le allucinazioni. Unico conforto il cibo e le bevande calde che il cuoco mette e disposizione senza sosta per i marinai che lo afferrano, lo divorano, e risalgono sul ponte.

Quella è la zona dove volano sempre stormi di laridi, i gabbiani che accompagnano i pescherecci, ma ormai non vola più un gabbiano sopra il Máfur. Sono loro i gabbiani ora, i marinai, ma strapazzati dalla burrasca.

Karáson ci trascina come la tempesta fa con la Máfur, e il lettore attende con ansia lo spezzarsi degli iceberg, il tonfo in mare delle scialuppe, attende che la nave tirata giù da un’ondata riemerga tutta in superficie, attende che il vento cali la sua forza.

 

Marisa Cecchetti


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