Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. “Ragazza” di Edna O’Brien
17 Novembre 2020
 

Edna O’Brien

Ragazza

Traduzione di Giovanna Granato

Einaudi, 2019, pp. 194, € 17,00

 

Ha impiegato tre anni Edna O’Brien per scrivere Ragazza, ed ha viaggiato in Nigeria per raccogliere informazioni, conoscere l’ambiente, la cultura locale, ma soprattutto “aprire una finestra straziante sulla storia segreta delle ragazze rapite”.

Si tratta delle 276 studentesse rapite a Chibok nel nord est della Nigeria nell’aprile 2014 da guerriglieri di Boko Haram, di cui alcune riuscirono a fuggire e solo 82 furono liberate nel 2014 in seguito a lunghi negoziati tra il governo nigeriano e il gruppo integralista islamico. Furono ridotte in schiavitù, oggetto di continui stupri, rese partecipi delle più orrende nefandezze, spinte alla conversione.

Strappate alla loro vita, caricate su un camion come bestie, le ragazze sperano nelle squadre di ricerca e lanciano oggetti dalle fiancate dei camion per seminare tracce. Le portano nella giungla, le dividono in vari gruppi, le scaricano nei covi fortificati.

I loro abiti sono dati alle fiamme. Rivestite di uniforme blu e hijab vengono terrorizzate dalla propaganda jihadista: “Dobbiamo portare lo scontro nelle caserme di quei porci, di quei vermi, di quei miscredenti che sono anche la vostra gente, la vostra tribù, i vostri genitori… Eliminarli. Tagliarli la gola”. Sulla foresta passano inutilmente aerei da ricognizione.

I loro corpi ancora ignari di ragazzine sono preda di uomini vogliosi, in sequenze che sembrano infinite; deflorate in mezzo ad ululati ed esultanza su tavolacci di ferro nel luogo riservato dello stupro, ne escono fantasmi sanguinanti e straziati.

Lavori umilianti, trogoli da cui attingere un cibo immangiabile, sporcizia, topi, carni marce da cucinare cercando di soffocarne i cattivi odori con foglie profumate, tutto trasforma le ragazze in oggetti senza dignità. Le loro storie si intrecciano a quelle di chi le ha precedute nella disgrazia, il ricordo della famiglia divenuto una nostalgia ed uno strazio.

In un contesto di estremo degrado la ragazza dà alla luce una bambina, figlia di un rapporto di minore violenza. Babby, questo il suo nome, ha il poco latte della madre denutrita.

Poi una notte – chissà quanto tempo è passato, perché è ormai perso ogni riferimento temporale – un rimbombo, un aereo che bombarda, lei che strappa via la piccola e fugge insieme ad un’amica. Corrono in mezzo alla carneficina stranamente illese, con un aiuto inaspettato: “Eravamo fuori. Oltre una trincea e dentro il primo confine della foresta. Era buio, e ancora più buio era in alto, dove gli alberi s’intrecciavano. Sentieri e discese erano imprevedibili, ma correvamo ad una velocità di cui non ci sapevamo capaci”.

Immense le difficoltà per trovare un riparo, sempre in agguato i pericoli, la fame, il terrore. L’amica muore, una fossa malamente scavata è la sua tomba: “Io scavavo, e sembrava che fosse lei a dirmi come fare. Non c’era tempo per i pianti”. Continua a fuggire con la bambina che strilla contagiata dalla disperazione della madre, che ha il seno vuoto e arriva a gesti irrazionali nella speranza di farla sopravvivere.

È a quel punto estremo che nella foresta la salvezza giunge da una tribù di indigeni. Tuttavia madre e figlia non possono rimanere a lungo, corrono il rischio di essere scoperte, così dovranno affrontare ancora ostacoli al limite del surreale.

Ciò che stupisce e sconvolge chi ha avuto la fortuna di ritornare è quello che lo aspetta. Infatti, dopo i festeggiamenti istituzionali, quando la ragazza pensa di essere al sicuro, capisce invece di suscitare paura, e di essere considerata un rifiuto, uno scarto. Non è facile il reinserimento, perché le “madri della foresta” sono donne violate, sporcate; ma soprattutto sia loro che i figli nati dalla violenza jihadista rappresentano un rischio per la comunità. I jihadisti possono sempre tornare: dall’inizio della jihad contro il governo di Abuja, i guerriglieri di Boko Haram hanno ucciso migliaia di persone e a milioni sono stati costretti ad abbandonare i loro villaggi.

Neppure la famiglia offre un riparo sicuro, i parenti hanno sorrisi e parole false e l’ipocrisia nasconde progetti crudeli: “Mia madre temeva che restassi da sola mentre lei era nei campi ad aiutare lo zio. Prese un campanaccio appartenuto ad un suo antenato capotribù. Era di rame. Potevo allertare un vicino o un passante”.

La O’Brien offre una possibilità di salvezza a Ragazza? Sarà ancora lungo e pericoloso il percorso che la giovane madre deve affrontare, non meno di quello vissuto al campo dei jihadisti e nella giungla stessa.

 

Marisa Cecchetti


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