In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Disclosure” di Sam Feder
06 Luglio 2020
 

C’è chi dice che siamo fatti dei film che abbiamo visto: nel senso che tendiamo inconsciamente a imitare il comportamento di certi personaggi cinematografici; e a introiettare i giudizi morali impliciti nei film che ci sono piaciuti.

Tale assunto è in parte dimostrato e in parte smentito in un film americano, un documentario, uscito su Netflix, intitolato Disclosure (cioè: rivelazione), diretto da Sam Feder. Si tratta di una breve, rapsodica, storia del cinema e delle televisione americana, dai film muti di Griffith alle ultime serie di successo, includendo en passant qualche popolare talk show, raccontata da un punto di vista inconsueto: quello delle persone, uomini e donne, transessuali.

Beninteso: gli interlocutori transessuali scelti dal regista, sono attori, produttori, registi, intellettuali, che non hanno voluto conformarsi ai clichés con cui tanti film per decenni hanno raffigurato i transessuali; ma che hanno avvertito pesantemente, e anche drammaticamente, in loro e nelle persone intorno a loro, in primo luogo i loro genitori, il condizionamento indotto da quei film: film che certo riflettevano i pregiudizi della società in cui erano realizzati, ma che allo stesso tempo li confermavano e li rafforzavano.

Il documentario passa in rassegna una serie di topos narrativi sul tema del travestimento e del cambiamento chirurgico di genere. Ad esempio: quando a un parente o a un amico appare per la prima un uomo in vesti femminili, l’altro scoppia immancabilmente a ridere, come se il travestimento fosse un fatto ovviamente ridicolo.

Oppure: quando un uomo si apparta con una donna e scopre che si tratta invece di un uomo, inevitabilmente si direbbe, vomita.

O ancora: ricoverato in ospedale, un uomo o una donna transessuale scopre di avere contratto un tumore alle ovaie o alla prostata a causa delle cure ormonali per il cambio di sesso.

O infine: al termine di un thriller, si scopre che l’assassino è un transessuale squilibrato.

È certo che alcuni dei film che comprendono questi e molti altri clichés presi in esame dal documentario, sono anche divertenti, o belli. Si tratta in certi casi di classici del cinema.

Ma in Disclosure non è in discussione la loro qualità artistica, ma la pressione psicologica che, sommati l’uno all’altro, quei film anche involontariamente esercitano su chi transessuale è per davvero e che, da un simile immaginario, può sentirsi confinato in un destino di derisione, di solitudine sentimentale, se non di prostituzione o di morte violenta.

Ma il documentario contiene un risvolto positivo, che si realizza quando, soprattutto ai giorni d’oggi, cineasti transessuali di successo possono raccontare la realtà dei transessuali a un pubblico popolare, dal proprio punto di vista: come, si ricorda, in un personaggio della serie “Orange is the new black”, o, in una dimensione corale, nella serie “Pose”. Sono racconti consentiti in società divenute più aperte e tolleranti, ma che vorrebbero anche prefigurare diverse società: perché se il cinema deve riflettere i mali presenti, se qualche volta è compartecipe - complice - di quei mali, può anche farci sognare mondi migliori.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 4 luglio 2020
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