In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Al Dio ignoto” di Rodolfo Bisatti
03 Maggio 2020
 

Ci sono film che ci proiettano immaginariamente in mondi migliori di quello in cui viviamo. Ci sono film che ci proiettano in mondi peggiori che, però, per ragioni in parte oscure, ci attraggono, forse perché in quei mondi hanno più libero sfogo pulsioni aggressive, distruttive, che abitualmente, per fortuna, reprimiamo.

E poi ci sono film che vogliono trasportarci in mondi che non soltanto non sono ideali da nessun punto di vista, ma che nemmeno ci affascinano per la loro negatività. Sono mondi, o realtà, in cui semplicemente non vorremmo mai trovarci e da cui preferiremmo allontanare anche il pensiero.

È in una di queste realtà che ci introduce il film di Rodolfo Bisatti intitolato Al Dio ignoto, un film che non è stato distribuito nelle sale, ma che è visibile sulla piattaforma CHILI. Ma Bisatti – che è un autore che appartiene alla scuola di Ermanno Olmi, il quale ha spesso prodotto i suoi film – non è certo mosso da crudeltà nei confronti dello spettatore, ma da un’intima necessità espressiva.

Il piccolo mondo che il film ci descrive è un ospedale vicino Merano, preposto alle cure palliative per pazienti nella fase terminale della loro malattia, che dunque non hanno più nessuna speranza di guarigione.

Protagonista del racconto è un’infermiera, che aveva visto alcuni anni prima morire di leucemia sua figlia, ancora molto giovane, e per la quale – per risparmiarle ulteriori, inutili sofferenze – aveva chiesto ai medici e agli infermieri che fosse sedata.

Il ricordo della figlia è ancora in lei così vivo, che nel giorno in cui ricorreva il suo compleanno, prepara una torta con tanto di candeline che poi provvede a seppellire in una fossa nel suo giardino di casa.

La presenza della morte incombe così, tanto nella sua vita privata quanto nel suo lavoro all’ospedale. E se lei vi si rassegna, sia pure accusando crisi di disperazione, suo figlio, adolescente, rigetta quel clima opprimente che respira dentro casa, sviluppa un’avversione nei confronti di sua madre, respinge il ricordo di sua sorella, e allo stesso tempo, anche forse per dare prova a se stesso della propria vitalità, pratica sport estremi.

È un’insofferenza con la quale lo spettatore è indotto a simpatizzare; che può provare lui stesso di fronte ad alcune situazioni dolorose, o cariche di angoscia, con cui il racconto lo costringe a confrontarsi.

Ma il film di Bisatti si propone di fornire come una cura a questa avversione, di infondere un senso di accettazione serena, che si fa largo alla fine nell'animo del ragazzo, ma anche in quello di chi assiste al film.

Se il senso del mistero è soffuso in tutto il racconto – in una battuta i malati terminali sono paragonati a un equipaggio che sta per essere lanciato nello spazio verso una destinazione ignota – la religiosità che si percepisce ancora più viva è quella, evangelica, che consiste nella cura degli altri: degli infermieri o dei familiari nei confronti dei pazienti, ma anche dei pazienti tra loro. E si esplica attraverso semplici occupazioni, come stare insieme la sera sulle sdraio nella veranda a guardare le stelle e a conversare; in una partita a scacchi; in uno scambio di confidenze; in qualche scherzosa galanteria; o in una sosta in comune in giardino.

È questo aspetto familiare, dimesso, dell’attesa della morte, durante la quale ci si conforta a vicenda, che costituisce la nota più originale del film di Bisatti, che sceglie uno stile privo di ridondanze melodrammatiche. E trova per i suoi personaggi volti intensamente espressivi, che siano di attori professionisti (come il grande Paolo Bonacelli nel ruolo di uno dei pazienti), o di attori che sembrano invece, come si diceva, una volta, “presi dalla strada”.

Da vedere, su CHILI.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 2 maggio 2020
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QUI la scheda audio)


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