In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Dafne” di Federico Bondi
24 Marzo 2019
 

I personaggi che, a vario titolo, possono rientrare nella categoria dei cosiddetti “diversi”, sono suscettibili in un racconto di due trattamenti opposti, ma che comunque, almeno in parte, li falsificano. Il primo è quello che ne fa dei perversi “a priori”: come se il tratto che li rende diversi fosse il sintomo della loro natura inferiore e malvagia. Il trattamento opposto è quello che li vuole, proprio perché diversi, migliori degli uomini normali, più buoni, perfino angelici. Semplifico ed estremizzo, ma credo che in forme più attenuate, o magari più contraddittorie, entrambi i trattamenti possano ritrovarsi anche nel cinema contemporaneo.

Un esempio, del secondo tipo di trattamento, è un film, peraltro pregevole, intitolato Dafne, diretto da Federico Bondi, un regista al suo secondo lungometraggio, presentato alla sezione Panorama del Festival di Berlino, dove ha ottenuto il premio Fipresci, assegnato dalla Federazione della Stampa Cinematografica Internazionale. Il film è in uscita in questi giorni in alcune sale italiane, grazie all'Istituto Luce che lo distribuisce.

Dafne ha come protagonista una ragazza affetta dalla sindrome di Dawn. Già quasi all'inizio del racconto, è colpita dalla disgrazia della morte improvvisa di sua madre, con la quale aveva un rapporto di grande affetto, di profonda complicità. Dopo aver dato sfogo senza reprimersi a tutto il suo dolore, la ragazza “si asciuga le lacrime” e riprende risolutamente la propria vita, e prima di tutto il suo lavoro – è commessa in un supermercato; il lavoro che per lei, come dichiara, è sacro.

Al contrario il padre, anziano, fatica a riprendersi dal dolore, non trova le forze per mandare avanti il suo negozio di cornici, la sua stessa lucidità mentale vacilla.

Sarà allora proprio la figlia che per scuoterlo, per rivitalizzarlo, lo coinvolgerà un po' tirannicamente – ma è una tirannia a fin di bene – in un viaggio avventuroso, quasi tutto a piedi, fino al cimitero del lontano paese di montagna dove è seppellita la madre.

Ed è durante le piccole avventure del viaggio, gli incontri di cui è costellato, che la personalità della ragazza avrà modo di manifestarsi a pieno.

Vitale e determinata, indipendente e anzi gelosa della propria libertà, è anche comunicativa, sensibile, creativa, sincera e insofferente alle comuni ipocrisie: tutte qualità così vive, che al confronto con lei gli altri personaggi, tutti miti e gentili, come conquistati da lei, appaiono anche però un po' opachi, un po' spenti. La ragione è forse che gli altri sono personaggi realistici, mentre la protagonista è evidentemente idealizzata: idealizzata proprio perché disabile, e forse anche in quanto personaggio femminile. E infatti un'idealizzazione, sia pure minore, lambisce la figura della madre, certo anche perché nel ricordo dei vivi i morti tendono spesso a essere idealizzati.

Va detto, comunque, che la figura della ragazza, impersonata efficacemente da Carolina Raspanti, che suscita spesso sorprese anche per il suo modo originale, caratteristico, di parlare, conquista l'attenzione e la simpatia dello spettatore.

E la coppia che forma con il padre – interpretato molto bene dall'attore Antonio Piovanelli – quel padre che confessa che al momento della nascita ha istintivamente ripudiato la figlia e che ora invece è in umile ammirazione di fronte a lei – è una coppia che offre dei momenti di verità e di poesia.

Interessante.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 23 marzo 2019
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QUI la scheda audio)


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