L'ultimo dei milanesi
Storie di sport e guerra al CIA “A. Manzoni” 
di Mauro Raimondi
11 Febbraio 2019
 

Memoria. Umanità. Banalità del Male. Con questi tre concetti Laura Galimberti, Assessore all’Educazione e Istruzione del Comune di Milano, ha sintetizzato e chiuso l’incontro Un pallone a Mauthausen. Ferdinando Valletti: storie di sport e guerra” che si è svolto il 5 febbraio al Polo Scolastico di via Deledda 11.

Organizzata dal Centro di Istruzione per l’Adulto e l’Adolescente (CIA) “A. Manzoni”, l’iniziativa – riportata nelle pagine milanesi di la Repubblica – ha visto sul palco Sabina Banfi, Direttore Area Servizi Scolastici ed Educativi del Comune, la preside Silvia Corniglia e i giornalisti Davide Grassi e Manuela Valletti Ghezzi che hanno raccontato alcune storie relative a uomini di sport che hanno avuto a che fare con la dittatura nazifascista.

Davide Grassi, autore del libro L’attimo vincente, ha narrato di come alcuni boxeurs fossero costretti, nei lager, a combattere sotto gli occhi delle SS fino allo sfinimento perché i perdenti finivano direttamente nei forni crematori. Ha poi presentato le tristi vicende di due protagonisti del mondo del calcio. Innanzitutto, quella di Arpad Weisz che, dopo aver vinto dei campionati di serie A come allenatore di Inter e Bologna, fu costretto ad abbandonare l’Italia a causa delle legge razziali. Catturato in Olanda, venne deportato ad Auschwitz, dove trovò la morte e un pesante silenzio squarciato solo dal libro Dallo scudetto ad Auschwitz di Matteo Marani. Quindi, si è soffermato su Matthias Sindelar, uno dei giocatori più importanti dell’epoca, che si schierò apertamente contro il nazismo e l’unione tra la sua Austria e la Germania, finendo la sua esistenza insieme alla fidanzata ebrea (e milanese) a causa dell’avvelenamento provocato dal gas fuoriuscito dal suo appartamento: un decesso poco chiaro e quasi sicuramente provocato dalla Gestapo. Infine, ha citato l’indimenticabile Bartali che, durante gli allenamenti, portava addosso dei falsi documenti di identità da consegnare agli ebrei per salvar loro la vita. Una volta finita la guerra, quando veniva elogiato per questo, il grande Gino si scherniva limitandosi a rispondere che aveva solo fatto il suo dovere.

Manuela Valletti Ghezzi ha invece narrato di suo padre Ferdinando, giocatore del Milan nei primi anni ‘40, che venne deportato a Mauthausen (e poi a Gusen) per avere partecipato attivamente agli scioperi all’Alfa Romeo del marzo 1944. Costretto a lavorare nella famigerata cava, riuscì a salvarsi perché un giorno un kapò chiese se qualcuno sapesse giocare a calcio. Offertosi per un provino, Valletti disputò una partita al posto di un soldato delle SS che si era infortunato e, dimostrate le sue capacità, venne spostato in cucina dove non solo riuscì a mangiare qualcosa in più ma anche a nascondere bucce di patate per i suoi compagni di baracca, aiutandoli a sopravvivere.

Una volta rientrato a Milano, Valletti riprese il suo lavoro diventando dirigente dell’Alfa Romeo. Raggiunta l’età della pensione, dedicò gli ultimi anni della sua vita a raccontare la sua avventura nelle scuole, portando sempre e comunque un messaggio di perdono per i suoi aguzzini.

Adesso, Ferdinando è un Giusto tra le Nazioni e questa vicenda, trasposta in un libro dalla figlia giornalista e in un documentario da Mauro Vittorio Quattrina intitolati Deportato I 57633 voglia di non morire, ha profondamente toccato il folto pubblico formato da insegnanti, studenti e cittadini milanesi.


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