Pianeta jazz e satelliti
Roberto Dell'Ava. Dov'è il pianoforte?
Paul Desmond (by Roberto Polillo)
Paul Desmond (by Roberto Polillo) 
11 Febbraio 2019
 

Paul Desmond, che aveva una laurea in letteratura inglese (“Non divenni uno scrittore perché riesco a scrivere solo sulla spiaggia, e mi si riempie la macchina da scrivere di sabbia”), era anche noto per il suo humor, dimostrato nelle note che accompagnavano i suoi album e in numerose testimonianze. Benché per molto tempo si sia parlato di una autobiografia, questa non si materializzò mai anche perché Desmond, poco più che cinquantenne, si ammalò di tumore polmonare. Quando seppe della diagnosi reagì con la sua proverbiale lievità, rallegrandosi di avere un fegato in ottime condizioni: “Come nuovo, uno dei migliori fegati esistenti. È a bagno nel Dewar (una marca di whisky) e scoppia di salute”. 

 

 

Take Five è un classico della musica jazz, ed è stato scritto da Paul Desmond e comparso per la prima volta nell’album Time Out del quartetto di Dave Brubeck nel 1959. Questo famoso brano, utilizzato in mille modi, dalla pubblicità al cinema, si caratterizza soprattutto per la sua metrica, in 5/4, da cui deriva il nome. La reale ideazione di Take Five è variamente attribuita a Brubeck, Morello e Desmond, ma di fatto è quest'ultimo che ne figura come autore, sebbene sia a tutti gli effetti identificabile con il quartetto più celebre di Brubeck.

Secondo Dave Brubeck, il brano è nato proprio durante le prove nel periodo di registrazione di Time Out, l’album più famoso del quartetto, costituito per intero da brani dalla metrica inusuale; Joe Morello ideò il ritmo in 5/4 e Desmond avrebbe iniziato ad improvvisarci sopra, fintanto che Brubeck rimase entusiasta della melodia.

Alla prima versione del brano comparsa in Time Out seguirono dozzine di successive riprese e rivisitazioni, con formazioni diverse e con alternanza di strumenti. Registrato presso i Columbia's 30th Street Studios di New York il 25 giugno, il 1° luglio e il 18 agosto del 1959, Take Five non è stato il primo brano jazz scritto in 5/4 ma sicuramente è stato il primo in termini di successo, classificandosi al 25° posto nella  Billboard Hot 100 e al quinto posto della Easy Listening Survey, sempre redatta da Billboard.

Essendo uno degli standard più eseguiti ed incisi in assoluto, esistono le più disparate versioni, compresa una con testo ad opera dello stesso Brubeck con la complicità della moglie Iola per Carmen McRae. Da questa versione il compianto Al Jarreau ne trarrà una versione scat. Pochi sanno che alla sua morte, Paul Desmond lasciò i diritti delle sue composizioni, tra le quali anche Take Five, alla Croce Rossa Americana, che da allora, in termini cumulativi, ha ricevuto circa 100.000 $ all'anno.

Tornando alla autobiografia mai comparsa in libreria, le pagine che seguono rappresentano l’unico stralcio sopravvissuto e giunto fino a noi. Desmond avrebbe voluto intitolare il libro “In quanti siete nel quartetto?”, e già dal titolo si intuisce la vena ironica e divertita che ne permea le poche righe. L’articolo è comparso sul giornale inglese Puch e la traduzione è opera di Sergio Pasquandrea.

L’originale comparso sul sito inglese non è più in rete, la prima pubblicazione del racconto risale a circa undici anni fa e si trova sul blog Ruminazioni dello stesso Pasquandrea.

 

 

 

Come il jazz arrivò
alla fiera dell'Orange County

di Paul Desmond*

 

Sometimes I get the feeling that there are orgies going on all over New York City, and somebody says, “Let’s call Desmond”, and somebody else says, “Why bother? He’s probably home reading the Encyclopedia Britannica”. (Paul Desmond)

 

 

Alba. Una station wagon si ferma davanti all'ufficio di uno sperduto motel nel New Jersey. Tre uomini entrano: faccia di gesso, occhi pesti, bocca chiusa (questi sono i loro nomi). Una perfetta scena d'apertura, prima dei titoli di testa, per un B-movie su una rapina in banca? Sbagliato. Il Dave Brubeck Quartet, qualche anno fa, sul punto di cominciare una giornata di lavoro.

Oggi abbiamo un contratto (un'offerta che avremmo dovuto rifiutare) per due concerti alla fiera dell'Orange County a Middletown. Uno alle due del pomeriggio, l'altro alle otto di sera. A Brubeck piace essere presto al lavoro.

Quindi ci fermiamo dietro questo questo camion carico di fieno intorno a mezzogiorno, e alla fine rintracciamo il tizio che ha firmato il contratto. Massiccio, con il collo rosso, modi ruvidi e aria infastidita (dal vecchio omonimo studio legale del New Jersey), e chiaramente più a suo agio nel giudicare il bestiame che nell'ingaggiare gruppi jazz, scruta dentro la station wagon, che contiene quattro musicisti, il contrabbasso, la batteria e bagagli assortiti, e per la prima e unica volta nei nostri diciassette anni di vagabondaggi in giro per il mondo ci sentiamo rivolgere la domanda: “Dov'è il pianoforte?”.

Lasciamo Brubeck a sbrogliare la questione e ci dirigiamo in città per prendere un sandwich e dare un'occhiata. Dato che i sandwich prendono più tempo dell'occhiata, mi procuro una copia del “Middleton Record” e le cose cominciano a farsi più chiare. IL GIORNO DEGLI ADOLESCENTI ALLA FIERA DELL'ORANGE COUNTY, dice il titolo sulle due pagine centrali (scelta azzardata, poiché il giornale ha quattro pagine in tutto). Questi poveracci, e in particolare il tipo che giudica il bestiame (al quale probabilmente è stata appioppata l'organizzazione degli intrattenimenti) hanno pensato che noi fossimo una grande attrazione per adolescenti, e il Signore è testimone che non lo siamo mai stati. Il nostro pubblico tipico inizia con decrepiti vecchietti dai ventitre anni in su.

Eppure eccoci qui, spiattellati su questa pubblicità insieme alle altre attrazioni della giornata: esibizioni di judo, dimostrazioni di pompieri, uno show del selvaggio West e l'Animalorama (che potrebbe essere un semplice errore di battitura). E proprio in cima, nelle prime due colonne a sinistra, c'è questa foto dei denti di Brubeck e di buona parte della sua faccia, insieme al seguente testo, che parafraso solo leggermente. ASCOLTATE LA MUSICA CHE FA ECCITARE TUTTI GLI ADOLESCENTI, così comincia. ASCOLTATE LA MUSICA CHE HA FATTO IMPAZZIRE NEWPORT RHODE ISLAND (citazione infelice, dato che poche settimane prima il festival di Newport aveva assistito alla sua prima rissa). ASCOLTATE DAVE BRUBECK CANTARE E SUONARE I SUOI FAMOSI SUCCESSI, TRA I QUALI “JAZZ GOES TO COLLEGE”, “JAZZ IN EUROPE” e “TANGERINE”.

Perciò, essendoci resi conto – secondo una pungente espressione campagnola tipica di Brubeck – della parte da cui pende il buco, torniamo verso la fiera dove ci si presenta più o meno questa scena: c'è una minuscola, quasi miniaturizzata pista da corse ellittica. (Non sono sicuro di quanto sia lungo esattamente un furlong [antica unità di misura inglese corrispondente a circa 200 metri, oggi usata soprattutto per misurare le piste per le corse di cavalli. NdT], ma non mi pare che qui ce ne siano molti a disposizione). Su un lato dell'ellisse c'è la tribuna, costruita per accogliere circa 2000 spettatori, occupata per il momento da otto o nove vecchietti che hanno chiaramente pagato per sedere all'ombra e sventolarsi, e non certo per un ardente desiderio di ascoltare la musica che fa eccitare tutti i loro nipoti adolescenti.

Sul lato opposto della pista c'è il nostro palcoscenico: una piattaforma di legno alta circa tre metri e immensa. È evidente che in tutta Orange County non si è riusciti a rintracciare un pianoforte, perché le uniche attrezzature sul palco sono un vecchissimo organo elettrico e un microfono. Dietro di noi c'è un tendone di discrete dimensioni, dove si sta svolgendo una gara di equitazione per adolescenti: che, come non tardiamo a scoprire, continuerà durante tutto il nostro concerto. È un bel problema, soprattutto perché il loro sistema di amplificazione è di gran lunga più potente del nostro.

Quindi attacchiamo con il nostro brano di apertura per le situazioni disperate, “St. Louis Blues”. Brubeck, che in vita sua non ha passato più di dieci minuti a suonare un organo elettrico, e ancora meno a suonare quello che ha davanti adesso, produce suoni simili a quelli dei primi sintetizzatori Atwater-Kent. (Più tardi fa alcuni importanti progressi, ad esempio localizza il pedale che controlla il volume e capisce che scuotendo la mano destra ottiene un effetto di tremolo simile a quello di Jimmy Smith, con uno strascico finale, ma non è di grande aiuto). Eugene Wright, il nostro nobile contrabbassista, ed io ci diamo il cambio a trascinare il microfono avanti e indietro dall'uno all'altro per suonare qualche infelice, maledetto chorus, ma l'unico suono che riusciamo a udire viene dai nostri amabili vicini della gara di equitazione.

“GALOPPO”, ruggisce l'altoparlante. “CANTER... TROTTO... E LA VINCITRICE NELLA CATEGORIA DEI DODICENNI È... JACQUELINE HIGGINS!”.

Come sempre, in situazioni difficili come questa, ci affidiamo alla nostra star, il virtuoso del gruppo, la Maria Callas della batteria, Joe Morello, che ci ha salvati dai disastri da Grand Forks, North Dakota, fino a Rajkot, India.

“È tutta tua”, gli diciamo, “allargati pure”, che in genere è come procurare un biglietto aereo a un dirottatore. E, a suo eterno merito, Morello supera se stesso. Tutti i piatti tintinnano, tutti i piedi lavorano. (Morello ne ha parecchi. Non sono in molti a saperlo). Ora sta sgranando terzine sul tom-tom, che ha fatto tremare dalle fondamenta le sale dall'Odeon Hammersmith alla Free Trade Hall e ha reso Buddy Rich ancor più verde del solito per l'invidia.

All'improvviso l'esibizione di cavalli tace. Lo sventolamento in tribuna si è a poco a poco arrestato.

All'improvviso una figura emerge dal tendone dei cavalli, si precipita accanto al palcoscenico e urla a Brubeck: “Per amor del cielo, potete dire al batterista di non suonare così forte? Sta terrorizzando i cavalli”.

Poiché siamo sempre stati una band capace di accettare sportivamente una disfatta, suoniamo una sorta di Muzak per un tempo conveniente e poi sbaracchiamo.

Quando ritorniamo alle otto, tutto è cambiato. È stato trovato un pianoforte, la tribuna è affollata del nostro seguito geriatrico di venticinquenni e oltre, e suoniamo un concerto del tutto rispettabile.

Eppure, anche così la scena ci viene rubata dal gran finale della fiera: la dimostrazione dei pompieri. Un gruppo di residenti del luogo è stato bendato e truccato in modo da farli apparire come se fossero appena saltati giù dall'Hindenburg e fossero prossimi all'estrema unzione. Ma invece di restarsene discretamente dietro le quinte fino all'entrata in scena, si mescolano in maniera del tutto informale con amici e vicini di casa fra il pubblico durante la serata, sorseggiando birra, masticando popcorn, dando una bizzarra aria felliniana all'accolita e abbassando in misura considerevole l'impatto della loro apparizione finale.

Dopo la loro sfilata, arriva l'evento principale della fiera, che è stato chiaramente preparato per mesi: uno scontro di auto in fiamme, seguito da uno scontro di aerei in fiamme, entrambi destinati ad essere gestiti con fulminea efficienza dal corpo di pompieri di Middleton. A una estremità dell'ellisse c'è un'automobile in equilibrio precario; all'altra estremità, un modello della struttura di un aereo monomotore, davvero impressionante, con la coda per aria. A metà strada, nell'occhio del ciclone, il furgone dei pompieri di Middleton, irto di scale e pompe e straripante di volontari.

Una serie di “shhh” passa per la tribuna. A un segnale del capo dei pompieri, viene dato fuoco all'automobile. Il furgone la raggiunge in due o tre secondi, tempo durante il quale il fuoco è più o meno equivalente a quello creato da una sigaretta caduta sul sedile posteriore per due o tre secondi. Un sacco di uomini lo spengono con parecchie pompe.

Un brusio passa per la tribuna. Il capo dei pompieri, con la dolorosa consapevolezza che il suo gran momento è in gioco, dà il segnale di incendiare l'aereo, e allo stesso tempo raccomanda al furgone di prendersela comoda, in modo che il fuoco sia in pieno vigore al suo arrivo. Il furgone si avvia, con l'andatura di un taxi in cerca di clienti. L'aereo dà un WOOOSH simile a quello di un lampo al magnesio, e quando il placido furgone arriva il fuoco si è ridotto a un bel focherello da campo, grande abbastanza per arrostirci toffolette.

Più tardi, quattro uomini dalle facce di gesso e dagli occhi pesti si pigiano in una station wagon e vanno via. Non sarà come rapinare banche, ma ci si guadagna da vivere.

 

 

* In Punch, 10 gennaio 1973. Traduzione di Sergio Pasquandrea.


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