In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Benvenuti a Marwen” di Robert Zemeckis
20 Gennaio 2019
 

Ricordo che Sigmund Freud, in un passo dedicato a un celebre caso di paranoia, individuava la radice di quel sistema di fantasie, di quel delirio organizzato da cui, come si sa, sono affetti i paranoici, in una “catastrofe interiore”, per la quale il mondo sarebbe apparso ai paranoici come distrutto, annientato. Le fantasie paranoiche sarebbero allora un tentativo, malato, di ricostruire il mondo, e insieme al mondo le proprie relazioni con gli altri.

Ora, chiedo scusa di questo sconfinamento, forse un po' impreciso, nella psicanalisi.

Ma un film americano, diretto da Robert Zemeckis e intitolato Benvenuti a Marwen, rende, a mio parere in modo molto evocativo, quel senso inquietante di una distruzione radicale, intima, dalla quale, appunto, secondo Freud, nascerebbero le fantasie paranoiche.

Beninteso: il film di Zemeckis non racconta propriamente di uno psicotico, di un folle. Ma di un artista (si riferisce a un artista americano reale, vivente, Mark Hogankamp), il quale, con l'immaginazione, ha creato un piccolo mondo, rifinito nei minimi dettagli, collocato in una cittadina del Belgio ai tempi della seconda guerra mondiale, nel quale un gruppo di donne, a sostegno di un soldato americano, organizza la resistenza locale contro gli occupanti nazisti. (È un mondo che prende corpo attraverso modellini e pupazzetti, i quali, ripresi dall'artista con una macchina fotografica, danno vita nel film a sequenze animate.)

L'interpretazione psicologica di tale immaginario sembrerebbe fin troppo facile. L'artista ha subito un violentissimo pestaggio ad opera di un gruppo di neonazisti che lo hanno ritenuto omosessuale, in conseguenza del quale ha addirittura perso la memoria.

Dunque: il soldato americano, umiliato e torturato, ma sempre audace, coraggioso, indomito, sarebbe una versione eroica di se stesso; le donne che lo circondano sarebbero le sue amiche, quelle cioè che nella vita reale lo assistono, delle quali a volte lui si innamora, non ricambiato: e che invece, nel mondo immaginario, stravedono per lui; i soldati nazisti sarebbero una versione retrodatata dei suoi carnefici.

Ma che le cose, nella psiche dell'artista, siano più complicate, più oscure, lo prova l'attitudine, sua e del suo alter-ego immaginario, il soldato appunto, a indossare scarpe da donna; a tratti la subordinazione di quel personaggio alle donne, come se loro fossero virili, e lui come un bambino affidato alle loro cure; e poi la fascinazione, dell'artista e del personaggio, per i soldati nazisti, che lo terrorizzano, ma da cui non riesce a distogliere la mente e lo sguardo, che lo ossessionano.

Insomma: il film ci suggerisce sottilmente che la terribile violenza di cui il fotografo è stato vittima da adulto, è probabilmente la ripetizione di un trauma che deve aver subito già da bambino, che ha compromesso la sua personalità e che risulta tanto più tremendo perché nel racconto resta indefinito.

Il film provvede a dare un risvolto positivo alla vicenda. L'artista troverà la forza di denunciare in tribunale i suoi persecutori; smetterà di amare le donne che lo respingono, e anzi troverà il vero amore.

È questo il momento più convenzionale, forzato, di un film altrimenti originalissimo, e che, da un punto di vista psicologico, suona sempre autentico.

Merito anche dell'attore protagonista, Steve Carrell, che, alle prese con un personaggio impervio, risulta sempre del tutto credibile.

Da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 19 gennaio 2019
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QUI la scheda audio)


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