Arte e dintorni
Maria Paola Forlani. 1519 Tintoretto 2019
Giuditta e Oloferne
Giuditta e Oloferne 
30 Dicembre 2018
 

Tintoretto, “il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura”. Che ha perfino superato “la stravaganza con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto, che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest’arte è una baia. Ha costui alcuna volta lasciato le bozze per finite, tanto a fatica sgrossate, che si veggiono i colpi de’ pennelli fatti dal caso e dalla fierezza, piuttosto che dal disegno e giudizio…” Rimproverato dal Vasari per l’eccessiva sintesi della sua pittura, Tintoretto, stanco invece di ripercorrere i soliti canoni della bellezza veneziana, rifiuta clamorosamente e da subito ogni forma di estetismo antecedente. Non solo si allontana dal mito di Tiziano e non sposa l’elegante tradizione veneziana, ma il suo forte e nitido realismo presagisce sempre più nel corso del tempo, lo stile pittorico di Caravaggio.

La determinazione che colpisce, soprattutto nelle grandi tele a soggetto sacro, sono elementi insoliti come la forte tensione drammatica. La mancanza di schemi classici se non quelli derivati dal furore michelangiolesco, l’attenzione verso tutto ciò che concerne il teatro e l’architettura. Fatto quest’ultimo che, a detta del Ridolfi (1648), gli comporta l’apertura di uno studio dove lavorare a lume di candela su una serie di modelli in cera e creta. Spesso e volentieri situati all’interno di piccole prospettive scenografiche, danno all’artista l’opportunità di poter osservare i gesti e le attitudini di ogni personaggio, studiare e copiare dal vero gli effetti luminosi, ricavare gli infiniti scorci di cui ha bisogno per dare vita alle sue “bizzarre” composizioni.

Ma, nonostante il valore che Tintoretto attribuisce alla volumetria delle forme e alla forza architettonica della scena, alla sicura velocità del pennello, il pittore non dimentica di approfittare delle zone d’ombra e di luce per dare spazio anche alle fantastiche visioni nate dall’immaginazione. Al contrario, egli utilizza la gigantesca potenza drammatica di Michelangelo Buonarroti da una parte e il dinamismo manierista dall’altra, per trasporre sulla tela, con corposità e il colorismo necessari a esprimere anche la propria partecipata commozione, ogni sorta di miseria umana.

Così anche i ritratti mantengono, nel loro dato espressivo, questa intensa ricerca di verità che supera come tensione pittorica la stessa caratterizzazione fisionomica e psicologica del personaggio.

Attratto dalle grandi dimensioni il pittore cerca dunque lo spazio, il palcoscenico dove raggruppare in profondità le sue figure tormentate, nate per essere esposte a un pubblico il più genericamente popolare e anonimo. D’altro canto era intenzione delle scuole stesse che, in virtù di una caritatevole beneficenza materiale nonché di una vigile assistenza spirituale, si ponevano in qualità di “strutture equilibratici per eccellenza del sistema sociale veneziano”, mostrare ed esaltare la vita e le vicende dei santi più amati dalla gente semplice: San Marco, patrono di Venezia e San Rocco, protettore degli appestati.

La Fondazione Musei Civici di Venezia e la National Gallery of Art di Washington avevano avviato, già, dal 2015 un progetto di ricerca di respiro internazionale per festeggiare i 500 anni dalla nascita del pittore veneziano Jacopo Tintoretto (1518-1594), tra i giganti della pittura europea del XVI secolo e, indubbiamente, quello che ha “segnato” Venezia con il marchio inconfondibile del suo genio: artista assolutamente “moderno” e a noi tanto vicino.

Al progetto hanno aderito le più importanti istituzioni veneziane, che partecipano all’anno tintorettiano con originali iniziative, editoriali e convegnistiche: le Gallerie dell’Accademia, la Scuola di San Rocco e la Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano opere di Tintoretto.

Il progetto, al quale hanno contribuito storici dell’arte di fama internazionale, si è concretizzato in un grande evento espositivo a Palazzo Ducale e alle Gallerie dell’Accademia di Venezia aperte fino al 6 gennaio 2019.

In queste due sedi prestigiose l’arte di Tintoretto viene celebrata dagli anni della sua precoce affermazione giovanile (Gallerie dell’Accademia) fino alla stupefacente vitalità creativa della maturità (Palazzo Ducale), in un percorso integrato di straordinari capolavori provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private del mondo.

A seguito, dal 3 marzo fino al 30 giugno 2019, la mostra sarà alla National Gallery of Art di Washington: un evento del tutto eccezionale trattandosi della prima presentazione in Nord America della pittura del grande artista veneziano.

A più di ottant’anni dell’ultima importante esposizione (1937) che Venezia gli ha dedicato, Jacopo Tintoretto torna dunque protagonista nella città lagunare.

Nel percorso espositivo nell’Appartamento del Doge – a cura di Robert Echols e Fedrerick Ilchman, con la direzione scientifica di Gabriella Belli – si possono ammirare una settantina circa di dipinti del Tintoretto e un nucleo raro di disegni, per illuminare il processo creativo del maestro, scelti con particolare riferimento ai dipinti esposti.

Tra questi: prestiti eccezionali dai musei italiani e da quelli da Londra – la National Gallery, la Royal Collection, il Victoria and Albert Museum, la Courtauld Gallery – da Parigi. Gent, Lione, Dresda, Otterlo, Praga, Rotterdam.

Dal Prado di Madrid sono arrivate cinque opere straordinarie, comprese Giuseppe e la moglie di Putifarre (1555 circa), Giuditta e Oloferne (1552-1555) e Il ratto di Elena (1578-1579), di oltre tre metri di lunghezza. Susanna e i vecchioni, celebre e fascinoso capolavoro del 1555-1556, è giunto dal Kunthistoriches Museum di Vienna e, grazie agli Staatliche Museum di Berlino, si può ammirare in mostra il nobile ritratto di Giovanni Mancenigo (1580 circa).

Ma Tintoretto non è neppure alieno dalla favola e dal mistero che ogni evento, nella sua totalità, porta con sé. Ed è infatti un evento straordinario quello per cui Jacopo Tentor, come orgogliosamente il pittore si firma nel Miracolo dello schiavo, inizia a stupire. Un attimo, nel tumulto delle passioni il divino, misteriosa creatura invisibile ai protagonisti del quadro, si sovrappone all’umano. L’apparizione del santo si trasforma in una raffigurazione dai toni volutamente crudi e realistici: San Rocco scende in carne e ossa nel lazzaretto, emblema tra i più scioccanti degli orrori del tempo, per dare conforto fisico e morale alla folla di malati e moribondi di peste che non ha altra attesa se non quella della morte. Nella Moltiplicazione del pane e dei pesci, eseguito nel 1579-1581 per la Scuola Grande di San Rocco, si assiste in termini ancora più diretti al tentativo di coinvolgimento del pubblico più povero. La stessa cosa avviene per i miracoli compiuti per San Marco.

Senza censure, le tele del Tintoretto continuano così a voler mostrare oscuri spaccati del semplice vissuto quotidiano, della vita dei diseredati, infermi e carcerati, pezzenti lacerati dalla fame e dal terrore di esistere come di morire, ai quali non resta che la speranza di un prodigio. Ed è in quest’ottica che genialità, sensibilità ed estro dell’artista si fondono e riflettono i mutamenti e le crisi religiose e di pensiero che vanno trasformando il mondo intorno a lui. Venezia è al declino di un’era, e la Riforma ha maturato nell’artista un credo che affianca alla rinascita dei valori evangelici un nuovo senso di giustizia sia celeste sia terrena. Anche per questo la spiritualità del Tintoretto traduce sulla tela, assieme alle proprie inquietudini, le sofferenze della gente comune, del popolo, di cui egli è e continua a sentirsi parte integrante.

 

Maria Paola Forlani


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