In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Don't worry” di Gus van Sant
10 Settembre 2018
 

Forse il sentimento più negativo che si possa concepire, è il sentimento della dannazione. E cioè quel sentimento di chi sente pesare su di sé una condanna, la più crudele, per la quale la sua esistenza è ridotta a puro dolore, senza nessuna speranza di una salvezza futura, e nemmeno di un momento di sollievo.

È il sentimento che, per esempio, in letteratura, Dante attribuisce ai dannati dell'Inferno.

Ma in arte, e anche al cinema, è a volte fatto rivivere in un ambito terreno, perché, si sa, anche la Terra, in svariate forme e per svariate ragioni, può trasformarsi in un inferno. E perché anche gli artisti che si ritengono laici possono concepire inconsciamente la realtà secondo immagini e categorie religiose.

Uno di questi casi è forse quello del regista Gus Van Sant che, nel suo film intitolato Don't worry (“Non preoccuparti”) racconta di un uomo che in seguito a un terribile incidente automobilistico si risveglia in ospedale, paralizzato agli altri, tra atroci dolori, il corpo spezzato tenuto insieme dalle macchine, senza nessuna possibilità di guarigione.

Sembrerebbe una dannazione accidentale, dovuta soltanto alla Dea Fortuna. E invece il caso raccontato dal film, è più complesso, più profondo.

Quella disgrazia sembra infatti la manifestazione più acuta, più drammatica, di un senso di condanna che già pesava sulla vita del protagonista, fin dalla sua infanzia: per essere stato un figlio illegittimo, abbandonato da sua madre.

È una circostanza biografica di cui il racconto riesce a farci percepire le intime conseguenze. Non soltanto ci riferisce che l'uomo, da giovane, cade nell'alcoolismo, ma ci fa intravedere le intricate ragioni di quella caduta: delle quali fa parte un radicato senso di colpa, e un disperato appello amoroso: come se, precipitando deliberatamente nella spirale dell'autodistruzione, egli invocasse l'aiuto di qualcuno – di quella madre mitizzata perché assente o magari di Dio, anche se l'uomo sembrerebbe ateo – comunque: qualcuno che lo salvasse.

L'episodio forse più compiuto, più riuscito di tutto il film, è quello che culmina nel fatale incidente automobilistico. Si racconta di un pomeriggio trascorso dal giovane a procurarsi dell'alcool; a bere di nascosto, in un parcheggio, vergognandosi del proprio vizio; di una notte passata tra vari party, dove la comunicazione con gli altri invitati è disturbata dall'assillo, da dissimulare di fronte agli altri, di dover bere altro alcool; e dell'incontro durante una festa con un sodale dello stesso vizio, con il quale si stabilisce un'immediata complicità. Sembrerebbe l'avvio di un'amicizia tipicamente maschile, cementata dal comune interesse per l'alcool e per le donne. E invece è qualcosa di diverso: ognuno è per l'altro come un demone, che lo trascina nella notte più tenebrosa. E il veicolo di quel viaggio è la loro macchina, che vediamo infatti sospingersi nel buio, guidata da un autista sempre più incosciente di sé.

Come anche in altri suoi film, Gus Van Sant non adotta un racconto lineare. Somiglia piuttosto a un incastro, dove le varie fasi della storia si intrecciano tra loro, dando suggestivamente quel senso del caos, che si combina bene con lo stato di perdizione del protagonista.

Così il momento negativo della storia è fatto convivere con quello più positivo, e cioè con il momento della redenzione. Grazie a una terapia di gruppo, nel quale il giovane si trova inserito, tra persone tutte fuori della norma e solidali tra loro; grazie agli insegnamenti di chi conduce la terapia – un giovane omosessuale malato di AIDS (il racconto si svolge negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta) – il protagonista si libera delle proprie tendenze autodistruttive, scopre la propria creatività diventando un disegnatore satirico (il film è tratto dall'autobiografia di John Callahan, che è stato appunto un vignettista di successo), e riesce a sentirsi realizzato e felice malgrado la grave invalidità.

Il risvolto positivo del racconto può lasciarci scettici: oltreché ridondante, ha un che di forzato, come spesso capita quando l'arte pretende di essere edificante, di additare la via del Bene. Ma il momento della crisi è raccontato con sottigliezza ed efficacia.

Si tratta di un film da vedere, nel quale giganteggia l'ottima interpretazione di Joaquin Phoenix nel ruolo del protagonista.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 8 settembre 2018
»» QUI la scheda audio)


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