In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Nome di donna” di Marco Tullio Giordana
20 Marzo 2018
 

Il cinema “civile” ha il compito, e il merito, di indagare nelle zone d'ombra della società; comprendendo in tali zone non soltanto quelle dove si nascondono i crimini più eclatanti, i più riconoscibili, quelli che generalmente tutti condannano; ma anche quelle realtà più comuni in cui il crimine ha tratti più sfuggenti, più ambigui, può più facilmente ammantarsi di onestà, e in questa veste può diffondersi e perpetuarsi indisturbato.

È uno di questi casi di ordinaria criminalità che ha scelto di affrontare un autore, un po' specializzato nel cinema civile, Marco Tullio Giordana, nel suo ultimo film: Nome di donna.

L'ambiente in cui si svolge la vicenda è una lussuosa casa di riposo, di gestione in parte cattolica in parte laica, il cui direttore, uomo di ottima reputazione in quella provincia del nord d'Italia in cui sorge la struttura, ha un'abitudine che un moralista potrebbe chiamare un vizio: è attratto dalle infermiere che assistono gli anziani, specie quando indossano la loro uniforme, e riesce spesso a indurle ad avere rapporti sessuali con lui.

Beninteso: non è uno stupratore. Ma certo si fa forte della sua autorità, dei favori che può elargire grazie appunto al giro di conoscenze in cui è introdotto; e di qualche rappresaglia sul posto di lavoro, se una ragazza non si sottomette alle sue volontà o diffonde voci sul suo conto.

Casi molto rari: perché le ragazze, consapevoli della sua influenza, si rassegnano abitualmente a ubbidire e a tacere, ed emarginano chi invece si ribella. È il caso della protagonista del film, la quale, respingendo le avances del direttore, si ritrova vittima da parte dell'uomo di un chiaro abuso, sebbene anche nel suo caso non si arrivi a un vero e proprio stupro. La ragazza si rivolgerà a una rappresentante sindacale, e anche grazie al suo aiuto e a quello di un'avvocatessa, porterà alla luce una trama di abusi e di omertà, e un caso di violenza più grave di quello da lei subito.

Ora riconosciuta a Giordana, e alla co-sceneggiatrice del film Cristiana Mainardi, la serietà e la nobiltà degli intenti, l'intelligenza e la sottigliezza della denuncia, va anche detto che in Nome di donna si ritrova a mio parere un difetto che ricorre nel cinema “civile”.

Se il direttore della casa di riposo, e il prete che gli fa da braccio destro e da complice, sono due bei personaggi, che ammettono delle contraddizioni – corrotti, ma anche coscienti della loro corruzione, di cui uno, il direttore, sembra perfino compiacersi, in modo un po' abietto, e di cui l'altro, il prete, in un momento di lucidità, sembra sgomento – la ragazza, in apparenza fragile, ma che si dimostra coraggiosa e determinata, è un personaggio così interamente positivo, e allo stesso tempo così generico, da sembrare più un buon esempio, che un personaggio realistico. E lo stesso sospetto di esemplarità suscitano le figure della sindacalista e dell'avvocatessa.

Insomma: la tesi del film, il messaggio di condanna, l'esortazione alle donne a farsi valere, hanno preso la mano all'autore e lo portano a schematizzare alcuni dei personaggi e alcuni passaggi del racconto.

Come di solito capita nei film di Giordana, le interpretazioni degli attori sono tutte riuscite, a partire da quella di Valerio Binasco, nel ruolo del direttore. Nel cast, figura anche Adriana Asti in un gustoso cameo.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 17 marzo 2018
»» QUI la scheda audio)


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