Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. “Isola” di Siri Ranva Hjelm Jacobsen
08 Marzo 2018
 

Siri Ranva Hjelm Jacobsen

Isola

Traduzione dal danese di Maria Valeria D’Avino

Iperborea 2018, pp. 224, €17,00

 

Quello che è certo è che viveva nel futuro, finché non ha cominciato a vivere nel passato. In questo senso era un vero migrante”. Così si dice del nonno, 'abbi', come lo chiama sempre l’autrice. Lui ha lasciato le isole Faroe verso la metà degli anni ’30, per andare in Danimarca. Lì lo ha raggiunto la nonna, 'omma', e in Danimarca hanno cresciuto ed educato la figlia nella cultura e lingua danese. Ma quelle isole lontane per abbi rimarranno sempre come Itaca, la terra a cui fare ritorno. Non importa se lui invecchia e muore a Copenaghen, casa per lui è quella lassù, a casa torna con la famiglia ogni estate, e se non fosse stato per la nonna, lui non ci sarebbe invecchiato, in Danimarca.

La nipote sente il bisogno di riscoprire i luoghi dei nonni. Migrante di terza generazione, “la dispersione biologica della migrazione”, non ha nulla della intraprendenza dei primi migranti – per il nonno Copenaghen era l’alternativa alla vita di pescatore, che lui odiava; per la nonna la possibilità di abbandonare l’odore del pesce lavorato che si portava addosso. La voglia di farcela ha dato loro la forza. Maestro in una scuola di campagna, il nonno ha creato il giardino più bello per la sua sposa, con i colori ed i profumi dell’isola. La nostalgia gli è sempre stata compagna, l’acquavite bevuta di nascosto un oblio momentaneo.

La generazione successiva, quella della mamma, “a gambe divaricate sulla distanza” parla una lingua che non è la sua e forse si sente doppiamente sbagliata. Allora fa di tutto per guadagnarsi l’inclusione, puntando sul lavoro. La terza generazione, frutto di tutto questo processo, non cerca più di essere riconosciuta attraverso il lavoro, e “trepida e fruga” le radici. Ne ha bisogno perché sente di essere un “prodotto composito”, che non sa nemmeno pronunciare il proprio nome nella lingua dei padri.

Il ritorno della giovane nipote diventa un progressivo riappropriarsi della storia di famiglia e un ritrovarsi. Le isole sono selvagge, i fiordi le incidono profondamente, il mare infuria sulle coste e il vento le percuote. Oppure le copre una nebbia che sembra “latte cagliato”, che “stava a pancia piena sugli avanzi del parco”. Ma quando il vento la porta via, si vede l’aria che “cantava bassa e celeste sui fiordi”.

È un mondo che lascia alla fantasia la libertà di immaginare troll, folletti, e creature misteriose bellissime e seducenti, e storie di paura, e storie di gabbiani che sembrano la reincarnazione di uno scomparso, e di sentire dovunque la presenza dei trapassati; la libertà di pensare alle isole come creature che galleggiano sul mare, che appaiono e scompaiono.

L’autrice alterna presente e passato, recupera la vita dei nonni, la storia della madre, della occupazione inglese delle Faroe e di quella tedesca della Danimarca, la cultura e le tradizioni locali.

Il suo registro linguistico, davanti a quella natura incontaminata, si fa poesia. Così possiamo leggere che “nuvole grigio elefante infarinavano le pareti della valle”, o vedere “una tonaca di pioggia sul campo”, sentire che “il monte azzurro è un tamburo battuto dal cielo”, che “la sera ha circondato la casa”. E che qualcuno “aprì la bocca per sentire il sole”.

 

Marisa Cecchetti


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