Telluserra
Amedeo Vignatelli. Prima che il serpente muti pelle 
(prose brevi) 1
Valmalenco. Lavorazione della pietra ollare
Valmalenco. Lavorazione della pietra ollare 
07 Dicembre 2017
 

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La parola dei morti m’appare muta e, se tutti abiteremo morte, quant’è muta questa nostra parola viva. Eppure la tartaruga prosegue il suo cammino, il senso che ci sfugge ─ forse nell’oggi di questi nostri secoli asfissiati ─ lo ritroveranno poi, in altre ore pregne di folgoranti adempimenti.

Oggi oso solo una parola muta, fuori da ogni senso, una parola che bestemmia a una preghiera, una parola che prega a una bestemmia.

 

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Nella campagna di un ieri agricolo che non ho vissuto appieno, c’è un pozzo d’acqua salmastra, copertura in lamina, pietre a secco in cerchio, fessure a nido di serpi e salamandre. Nel fondo, sotto pochi metri d’acqua, iridati da molta ombra e minimi filamenti di luce che si insinuano dai fori dell’arrugginito foglio, stagnano i momenti felici che ho vissuto.

Tirarli fuori, presto, prima che la serpe muti pelle.

 

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Le cose sovrastavano i pensieri, i sogni erano dispotiche fate. L’officina stava tutta appesa sul muro che sorregge una scalinata; a limitare una panchina. Avevo, poniamo, sette otto anni, forse usai un martello per i chiodi, forse l’infilzai con mano ferma ove permetteva la struttura. Vi appesi bulloni, consunte camere d’aria e dismesse ruote di plastica; non so quant’altro. Ero il meccanico tuttofare. Sentivo piena l’aria nei polmoni.

Le cose sovrastavano i pensieri, ecco l’arcano gioco a ridosso della scalinata.

 

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Il mio primo lavoro, ovviamente non pagato, poté considerarsi iniziazione all’arte, alla mercé e falsariga d’un medioevo a tratti fortunato. Andavo nella bottega di un certo Don Cesare, calzolaio messo bene in carne, severo maestro del buon fare. Mi raccontava mia madre che precedette un periodo per lei assillante (mio padre, immagino, ne rideva) in cui il mio io bambino reiterava l’orazione del voglio andare a lavorare, chissà per quali astrusi, viziati, fervidi meccanismi dell’immaginazione. Ne fui accontentato, certamente dietro istanza al buon Don Cesare, ignaro di un’indole alquanto balzana.

Due stanze, la prima delle quali, laboratorio e accoglienza della clientela, dava sulla strada; la seconda, retrostante, faceva da piccolo magazzino. Un classico, direi. Intensi e buoni gli odori di colla e cuoio, gomma e caucciù.

Vi andai, credo, per una quindicina di giorni. Era estate. Accadde che il mastro mi rimproverò per un non so che dei miei esperimenti, forse un intruglio di colla e polvere di meriggio, forse un pizzico di fantasia tra le scaffalature del retro, un ago malriposto che l’ebbe punto.

Ritornai a casa contento, vociando di gioia: mi sono licenziato, mamma, mi sono licenziato!

 

Postilla: primo divisamento di una inettitudine congenita al lavoro. Ne doveva inconsapevolmente passare (scorrere a fiumi) di colla sotto il ponte, ma quegli odori, quegli obliati magici odori, me li stringo al cuore.

 

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Amedeo Vignatelli


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