Ritratti
Angelo Colombo. Dal centrocampo all'allenamento
26 Dicembre 2006
 

La zazzera di un tempo, lunga e biondissima, è scomparsa per lasciare il posto a un taglio più corto di capelli. Siamo in un ristorante dalle parti di Piazzale Susa a Milano: “La Cometa” si chiama, covo di milanisti e fantastica cucina. Angelo Colombo è a suo agio in questo clima informale, sorseggia in compagnia un rosso friulano e parla volentieri di sé, del calcio, del suo passato di altissimo livello agonistico nelle file dei rossoneri meneghini. Del passato e del futuro. È una persona speciale Angelo: naturalmente garbato, ironico, disponibile, non ancorato passivamente ai ricordi, per quanto essi siano importanti, una sorta di destriero da cavalcare per ogni progetto futuro, viatico d’idee e speranze. Una persona generosa è Angelo, un tempo centrocampista, ora allenatore nel profondo dell’anima.

«Se una cosa la regali, rimane tua per sempre; se la conservi per te, non è mai tua», afferma Angelo, 45 anni, mediano del Milan stellare di Arrigo Sacchi, ma anche del Monza, dell’Avellino, del Bari, dell’Udinese, della Nazionale Olimpica di Seul e del Marconi Club Stallions, squadra australiana, di Sidney per la precisione, dove dopo i fasti italiani il dinamicissimo e poliedrico centrocampista, la cui tecnica non era male affatto peraltro, anzi... - ha concluso la carriera.

«I ricordi vivono dentro, non c’è bisogno di mostrarli per forza. Pensa che io non ho più maglie di quando giocavo: le ho date tutte a chi me le chiedeva. Sapevo che faceva piacere e quindi mi procurava piacere donarle. Difatti per Natale a un caro amico, tifosissimo di Diego Armando Maradona, ho regalato la maglia che mi aveva voluto dare alla fine di una gara».

Angelo Colombo è fatto così, un uomo che crede nei più profondi valori e nell’amicizia: il successo e le prestigiose vittorie non ne hanno mai mutato l’intima natura. Uno capace di partire per Cessalto, nel trevigiano, dalla natia Mezzago, in Brianza, per ringraziare i tifosi che hanno battezzato con il suo nome un Milan Club. Uno con un vastissimo e meraviglioso bagaglio di ricordi e il desiderio di dividerli con gli altri in forza di una passione comune per il calcio, per la vita.

Angelo Colombo ha vinto uno scudetto e due Coppe dei Campioni, ha giocato con e contro i più grandi del calcio di quel periodo (e alcuni di sempre) – egli stesso un grande – ma non è certo uomo da vivere con in corpo la sola nostalgia del passato. Finita la Scuola Allenatori a Coverciano e dopo dieci anni di settore giovanile al Milan - prima accanto a Franco Baresi, poi in qualità di coordinatore - è un tecnico giovane e preparato, disposto a proseguire con entusiasmo la sua avventura nell’universo del pallone, di grande cultura calcistica e non solo, curioso d’ogni branca del sapere sportivo e non solo.

«Ho apprezzato moltissimo» confessa «le lezioni che al Centro Federale ci venivano impartite, nell’ambito di Teoria della Comunicazione, da Felice Accame e sono rimasto incantato, veramente a bocca aperta, da un intervento dell’allenatore della Nazionale italiana di pallavolo, Gian Paolo Montali. Ho letto i libri scritti da Phil Jackson, l’allenatore NBA dei Chicago Bulls e dei Los Angeles Lakers: mi sono piaciuti così tanto da sottolinearne varie parti che talvolta mi vado a rileggere».

Per vocazione Angelo è immerso con pienezza nel presente e proiettato nel futuro, ma inevitabilmente nell’immaginario collettivo è collocato nel Milan epocale di Arrigo Sacchi, in cui lui aveva un ruolo fondamentale, di cerniera fra attacco e difesa. “La Littorina della Brianza” l’avevano ribattezzato. Titolare fisso ovviamente.

È vero che Sacchi vi martellava perennemente?

«Era maniacale nell’affrontare il suo lavoro. Questo è un po’ tipico di tutti gli allenatori che non hanno avuto un passato da calciatore. Gli ex giocatori, per quanto duri, sono in genere più elastici. Non lasciava mai nulla al caso ed era in grado, anche se io sono convinto che il calcio non è una scienza esatta, di sondare ogni possibilità di sviluppo del gioco e della squadra».

Detto dei compagni e del profeta di Fusignano, che cosa ci dici del presidente del Milan?

«Allora era molto vicino alla squadra. Tutte le settimane era con noi dividendo successi e allenamenti e dando il suo contributo psicologico. Un grande motivatore».

Il momento più bello?

«Il primo scudetto e, in particolar modo, i 120.000 spettatori di Barcellona, tifosi milanisti giunti per la prima finale di Coppa dei Campioni che abbiamo vinto per 4-0 contro la Steaua Bucarest. Ricordo con piacere anche l’esperienza australiana che mi lasciato delle bellissime amicizie e le Olimpiadi di Seul dove avevamo una squadra fortissima, anche se arrivammo solo quarti».

Quello più brutto?

«Non riesco proprio a trovarlo. No, non ne ho».

Da bambino sognavi di praticare un giorno il mestiere di calciatore?

«Sì, era il mio sogno, con Gianni Rivera quale punto di riferimento. Non ho mai capito se avrei potuto fare il professionista, poi a un certo punto mi ci sono ritrovato. La vera svolta avvenne quando a 13 anni andai al Monza, per me come una famiglia. Ricordo anche di avere giocato, essendo uno dei più versatili, in tutti i ruoli, da quelli di difensore all’attacco: ero un jolly. Poi l’Avellino, con il suo dirigente Pierpaolo Marino, mi cercò. Là trovai Antonio Valentin Angelillo, già eccelso giocatore ed eccezionale allenatore con i suoi consigli. Quell’anno giocai sempre – stavo dietro le punte Ramon Diaz, argentino, e Geronimo Barbadillo, peruviano – 30 partite e 7 gol».

A un certo punto hai abbandonato il Milan...

«Avevo quasi 31 anni, il Milan aveva preso Carbone dal Bari e Salvemini mi voleva. Ho pensato che potevo cambiare, sebbene avessi ancora un anno di contratto».

Quale avversario affrontato sul campo ti ha maggiormente colpito?

«Maradona, sicuramente. Diego era anche una persona buona. So di una volta in cui, vedendo una donna senza casa, sola, che viveva per strada, le regalò un appartamento spendendo varie decine di milioni di lire di tasca sua. Questo era Diego».

I migliori amici che hai conservato nell’ambiente?

«Baresi, Ancelotti, Donadoni, Barbadillo, ma ce ne sono veramente tanti altri. Pietro Paolo Virdis, un uomo di grandissima sensibilità».

Che cosa non ti piace del calcio di oggi?

«C’è del malessere che è figlio del benessere. Forse è un prezzo da pagare, in quanto comunque prodotto della società».

Angelo, per dieci anni hai insegnato il calcio a tanti bambini e ragazzi delle giovanili del Milan. Che esperienza è stata?

«Mi è sempre piaciuto trasmettere la mia esperienza e la mia passione. Sono sempre stato molto attento, però, a quel che dicevo e a come lo dicevo, pesando e soppesando ogni parola, visto l’ascendente che un ex giocatore di serie A può avere verso un carattere in formazione».

E adesso?

«Vorrei allenare un club. Ho imparato molto giocando e stando nell’ambiente così a lungo. Spero ci sia il coraggio di investire in allenatori della mia generazione».

 

Alberto Figliolia

 

 

Angelo Colombo è nato a Mezzago (Mi) il 24 febbraio 1961. Altezza 180 cm, peso forma 72 kg.

Esordio in serie A il 16 settembre 1984: Avellino-Roma 0-0. Vanta 184 presenze in serie A, con il corredo di 18 gol, 76 gettoni in B e 32 in C, 31 presenze nella serie A australiana, 7 con la Nazionale B, 9 con quella Olimpica e 5 con la rappresentativa azzurra di serie C. Ha vinto il campionato italiano di serie A 1987-88, le Coppe dei Campioni 1989 e 1990, oltre a una Coppa Intercontinentale, due Supercoppe Europee e una Supercoppa Italiana

Come allenatore ha lavorato dieci anni nel settore giovanile del Milan, gli ultimi cinque dei quali avendone la piena responsabilità

Ha frequentato Coverciano, Master compreso, ottenendo ogni abilitazione.


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