In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Dove cadono le ombre” di Valentina Pedicini
10 Settembre 2017
 

Io credo, e spero, che molti ascoltatori ricorderanno quel film, molto bello, di Liliana Cavani, del '74, intitolato Portiere di notte.

Era un film che, in una chiave del tutto originale, rievocava la realtà dei lager nazisti, e in particolare un certo tipo di relazione tra carnefici e vittime che nei lager poteva instaurarsi. Si sa che, malgrado le apparenze, il carnefice dipende dalla vittima, di cui ha bisogno per esercitare il suo dominio. E la vittima può non subire soltanto la crudeltà del carnefice, ma può finire per desiderarla, perché quel legame così intimo, assoluto, “simbiotico” con il carnefice può avere una sua dolcezza, anche se è velenoso, mortifero. Fatto sta che nel film della Cavani, una donna ebrea, anni dopo la caduta del nazismo, si imbatte in un albergo in un ufficiale delle SS, che in un lager appunto era stato il suo aguzzino. E si ritrova a rinnovare con lui, in piena sintonia con lui, in segreto, gli atti sadomasochistici che venivano compiuti nel lager, in un rito che finisce per condurre i due amanti all'autodistruzione.

Ricordo questo celebre film della Cavani, perché il suo “fantasma” è evocato da un altro film italiano, presentato in questi giorni al festival di Venezia nella sezione delle Giornate degli Autori, e intitolato Dove cadono le ombre, diretto da una giovane regista: Valentina Pedicini.

Lo sfondo storico del film non è dato in questo caso propriamente dal nazismo, ma da un fatto storico poco noto che dal nazismo sembra discendere. Si racconta che in Svizzera tra gli anni Venti e gli anni Settanta, sono stati sottoposti a sterilizzazione e a un programma di rieducazione centinaia di bambine e di bambini appartenenti all'etnia Jenish, una popolazione nomade un po' simile ai Rom, per estirpare così alle radici il male che quell'etnia avrebbe incarnato.

Il film si svolge ai giorni nostri, quando quel progetto di “pulizia etnica” è stato abolito e anche dimenticato. Si immagina che la clinica adibita a quegli orrori è stata trasformata in un ospizio per anziani.

Ma c'è una donna che da allora è disperatamente ancorata a quel luogo. Era una delle bambine jenish sottoposte a quel trattamento, presa a suo tempo a benvolere da una delle dottoresse della clinica, divenuta per lei una specie di madre putativa; promossa a “kapò” (dunque a despota degli altri bambini rinchiusi nella clinica), e ora infermiera dell'ospizio.

Se quel luogo non è più riuscita ad abbandonarlo, è perché lì ha perso la sua più cara amica d'infanzia, del cui corpo va ancora alla ricerca; ma forse più ancora perché non può liberarsi del gusto perverso del dominio sugli altri, che i suoi trascorsi le hanno instillato. Un dominio che esercita in particolare su un suo coetaneo, un suo antico compagno di sventura, divenuto idiota in seguito agli esperimenti scientifici condotti su di lui.

Questo nodo oscuro di sentimenti e di pulsioni che è in lei, e che la opprime, si esaspera, ma poi anche si chiarisce e si scioglie, quando la ragazza in una delle pazienti dell'ospizio riconosce la dottoressa che l'aveva presa in cura, e rinnova di fatto a ruoli scambiati (adesso è lei la carnefice) il suo passato.

Come si vede, il tema del film è scabroso e sgradevole. E va dato atto all'autrice del coraggio di averlo affrontato. È certo uno dei compiti dell'arte indagare e portare alla luce le zone d'ombra, della Storia, della società, e della psiche individuale. E Dove cadono le ombre è certo un film intelligente e suggestivo (e mi riferisco in particolare alla suggestione del luogo, la clinica-ospizio in cui il racconto si svolge per intero).

Se però, nel film della Cavani, malgrado la situazione estrema, quasi paradossale, i personaggi risultavano “veri”, qui il racconto, risulta a volte artificioso, visibilmente costruito, “teatrale”, nel senso negativo, manieristico, del termine.

I tre attori principali – Federica Rossellini, Elena Cotta e Josafat Vagni – sono bravi, ma neanche loro sono del tutto immuni dal difetto della teatralità.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della rubrica “Cinema e cinema”,
trasmessa da Radio Radicale il 9 settembre 2017)


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