Lo scaffale di Tellus
“Cronache mediorientali” di Robert Fisk 
«Osama bin Laden è come uno scienziato che ha creato una bomba atomica: sparito lui, resta la bomba»
22 Dicembre 2006
 

Parla arabo perfettamente ed è l’unico giornalista ad avere intervistato per ben tre volte, ovviamente prima della tragedia delle Torri Gemelle di New York, Osama bin Laden. Il sessantenne Robert Fisk, attualmente corrispondente da Beirut del quotidiano inglese The Indipendent, è considerato dal New York Times l’inviato di guerra più famoso del mondo. Gli italiani hanno potuto leggere i suoi servizi sulle pagine de la Repubblica, l’Unità e Internazionale. Dal 1976 in Medio Oriente, ne ha conosciuto i più aspri scenari umani, ma ha assistito anche alla guerra civile in Algeria, alle drammatiche vicissitudini della Bosnia e del Kosovo, al martirio delle popolazioni dell’Afghanistan.

Dalla Guerra del Golfo di Bush padre all’Iraq senza pace dei nostri giorni, dall’annosa e tormentata questione israelopalestinese, le sue cronache, che si sono fatte storia, sono sempre state oneste, ricche e di profonda sensibilità, un esercizio della verità, senza nulla nascondere, denunciando ogni sorta di torture, esecuzioni, ingiustizie e orrori, e ponendo senza posa domande. Recentemente Robert Fisk è venuto a Milano e nella metropoli meneghina, nella sede del British Council, il grande inviato inglese ha presentato Cronache mediorientali, uno splendido libro pubblicato per volontà e merito della casa editrice il Saggiatore (pp. 1.180, euro 35), un’opera fondamentale per la comprensione di quanto è accaduto e sta accadendo in quelle terre, «non una cronologia, ma la narrazione di un’unica Storia scandita in diverse storie».

Signor Fisk, in un mondo dove l’informazione è mediata dalla televisione che può deformare il dato della realtà, che spazio c’è per un mestiere quale il reporter di guerra, sempre in prima linea, a proprio rischio, in nome della verità e a beneficio dei lettori?

«Per la verità io sono un corrispondente più che un inviato di guerra, ma essendoci là dove io sono uno stato sempre di conflitto, mi sono trovato ad essere un corrispondente di guerra. Ma non l’ho scelto io. Credo comunque che vi sia ancora spazio per i giornalisti sul campo, testimoni di ciò che avviene. Anzi, ce n’è più bisogno di prima. La stampa e la televisione, soprattutto quella americana, seguono un processo divulgativo e d’informazione strutturato dalle autorità. Le faccio un esempio: si parla tanto dell’Iran e dei suoi programmi di preparazione al nucleare, ma perché allora non parlare del Pakistan che ha un arsenale nucleare? Non si vuole parlare di questo, semplicemente. Così come dopo la strage dell’11 settembre, si è parlato degli attentatori e della loro personalità, di come erano giunti a fare quell’atto, ma non si è discusso mai della genesi e della questione Mediorientale. Neanche del Medio Oriente si vuole parlare. È importante allora che vi siano giornalisti che spieghino come stanno davvero le cose, con le loro ragioni e perché».

L’obiettività documentaria cui è tenuto dal suo lavoro non le vieta di provare “compassione”, moti di vera pietas...

«Non sono assolutamente distaccato quando lavoro. Mi faccio coinvolgere emotivamente provando sdegno e rabbia. Non credo poi che si possa fare un giornalismo fifty-fifty, nel senso che, se devo parlare di schiavitù, dedico la maggior parte delle mie attenzioni alle vittime e non agli aguzzini. M’interessano più le ragioni dei sopravvissuti, dei massacrati di Sabra e Chatila, delle vittime dei lager. Quando un giorno mi sono dovuto occupare di un attentato nel territorio d’Israele, in una pizzeria, non m’importava tanto dei comunicati stampa dell’autorità palestinese, ma dei bambini morti o feriti, fra cui uno che aveva perduto entrambi gli occhi. Io mi domando: che cosa aveva fatto quel bambino per meritarsi una simile sorte?»

Nel capitolo “L’annientamento, l’antrace e Agamennone” lei a un certo punto descrive gli orrendi esiti delle subdole bombe a grappolo sui civili chiudendo un paragrafo con l’affermazione che confrontarsi con quelle tragedie induce umiltà...

«Certe esperienze rendono umili. C’è da parte di questi bambini e delle vittime una grande accettazione della realtà, quasi a riderne. In Medio Oriente, quando ho visitato degli ospedali, mi sono sempre imbattuto in una grande apertura umana del personale e dei feriti stessi, anche quelli gravi, che volevano raccontarmi la loro vita. Spesso erano i medici a portarmi al letto di qualcuno che stava morendo perché questi potesse parlare con me e offrirmi, come ultimo atto della sua esistenza, la propria testimonianza». Scriveva William Shakespeare in Giulio Cesare... «Il sangue e la rovina saranno così comuni e gli spaventosi spettacoli così familiari che le madri non sapran che sorridere nel mirare i loro bimbi squartati dagli artigli della guerra: ogni pietà sarà soffocata dall’abito delle truci gesta». Erano secoli fa, è il presente.

Da trent’anni lei è sugli scenari della guerra perpetua che affligge il pianeta. Quale motivazione l’ha condotta a iniziare la sua professione e che cosa la spinge ancora a farla?

«È da quando ho 12 anni che ho voglia di scrivere. Da quando vidi un film di Alfred Hitchcock, Il prigioniero di Amsterdam, con Joel McCrea, che interpretava la figura di un coraggioso giornalista. Una pellicola avvincente e che colpì la mia fantasia. Poi ho cominciato a leggere il Daily Telegraph, il giornale su cui scriveva mio padre, e la passione per il giornalismo non mi ha mai più abbandonato».

Quante volte si è detto “Ora basta!”?

«Me lo sono chiesto in occasione del lancio del mio libro sia in Olanda che in Francia. Ad Amsterdam e a Parigi vedevo la gente sicura e le famiglie passeggiare felici; io poi sono tornato a Beirut, in tutt’altra situazione, e lì mi è venuto spontaneo interrogarmi se per caso avevo sprecato trent’anni della mia vita. La risposta è stata che, se fossi tornato indietro, avrei assolutamente rifatto tutto così come l’avevo fatto».

Quando può dire di aver veramente provato paura?

«Molte volte. Nel 2001, fra Afghanistan e Pakistan, ho subito un brutale pestaggio. In altre circostanze mi sono trovato accanto a persone colpite a morte. L’anno scorso una granata è esplosa a quaranta metri dall’autovettura dentro la quale mi trovavo. Talora passare per un luogo cinque secondi prima o cinque secondi dopo può segnare la differenza fra la vita e la morte. Si dice che più sono le guerre in cui sei coinvolto e maggiori sono le tue possibilità di sopravvivenza. Oppure sono maggiori quelle che hai di morire? Sa che cosa le dico? Non lo voglio assolutamente sapere».

«Quando sei ferito e abbandonato/ sulle piane dell’Afghanistan,/ E arrivano le donne a tagliare quel che resta/ Prendi il fucile e fatti saltare la testa/ E vai al tuo Dio da soldato», scriveva Rudyard Kipling ne Il giovane soldato inglese. Afghanistan, un’altra questione e regione cruciale. Lei ha intervistato Osama bin Laden. Chi è questo spauracchio dell’Occidente?

«Chi è Osama bin Laden non fa alcuna differenza. Lui è finito, è irrilevante. Dopo aver creato Al Qaeda non conta più niente. Come uno scienziato che ha creato una bomba atomica: sparito lui, resta la bomba. Osama è una persona reale, ma è anche una fantasia, e la sua fantasia nella mente delle persone è superiore a ciò che egli in realtà è».

«...la tormentata terra era impazzita: i crimini dei pochi/ sfociavano nella follia dei molti, e le raffiche dell’inferno/ venivano celebrate come brezze del paradiso», sono versi di William Wordsworth da Preludio del 1805 che Fisk pone in apertura di un capitolo dedicato all’Iran, a suo tempo coinvolto da Saddam Hussein in una sanguinosissima guerra. Peraltro nel libro si tratta anche del problema dei Curdi calpestati e uccisi in massa dal dittatore. Si vuole ora Saddam condannato a morte: che cosa ne pensa il nostro grande inviato?

«La sua condanna a morte non cambierà nulla. Non sono favorevole alla pena capitale, ma, se lo fossi, Saddam, uomo brutale e terribile, andrebbe impiccato. Tuttavia siamo di fronte a una delle grandi ipocrisie: Saddam è stato creato da noi, noi l’abbiamo armato sapendo che cosa avrebbe fatto e come e contro chi. Mi sembra che stia prevalendo la logica del panem et circenses dando alla popolazione irachena, come contentino e come agnello sacrificale, proprio Saddam. Ma lui appartiene al passato e non più alla contemporaneità».

Gran merito del libro è anche quello d’indagare sul primo olocausto organizzato della storia: vale a dire il genocidio del popolo armeno, una ferita mai rimarginata, addirittura negata e che per questo duole ancor più. Che cosa ha imparato Robert Fisk, privilegiato testimone dei più disparati e disperati accadimenti, sull’uomo e la storia?

«La nostra è una vita d’illusioni, sostanzialmente strutturata dalla televisione e continuamente alimentata in tale direzione dai politicanti che vogliono impedirci di usare il cervello e di pensare. La guerra non è cavalleria né patriottismo, ma solo morte e fallimento dell’uomo». Scriveva Lev Tolstoj in Guerra e pace... «Scoppiò la guerra: un evento contrario alla ragione e alla natura umana divenne realtà. Milioni di uomini commisero, gli uni al danno degli altri, un numero indicibile di misfatti, tradimenti, ladrocinii, rapine, incendi e assassinii, falsi in assegni e denaro, quali per secoli non se ne annoverano le cronache di tutti i tribunali del mondo. E invece durante quel periodo gli uomini che se ne macchiarono non li considerarono nemmeno reati».

Robert Fisk è un uomo gentile e pieno di piccole, ma incredibili, attenzioni verso ciascuno dei suoi interlocutori. Prima di salutare il giornalista che, con ammirazione, lo ha intervistato, vuole autografargli una copia del suo magnifico libro; apre un foglio piegato e copia una frase: Con amicizia. Proprio così, in italiano. Lo fa con palese sincerità e spontaneità. Grandissimo il giornalista e grandissimo anche l’uomo.

 

Alberto Figliolia

(da 'l Gazetin, dicembre 2006)


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