Arte e dintorni
Artemisia Gentileschi e il suo tempo 
Al Museo di Roma di Palazzo Braschi con Maria Paola Forlani
27 Gennaio 2017
 

La mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo” che il Museo di Roma a Palazzo Braschi ospita fino al 7 maggio 2017 nasce da un’idea di Nicola Spinosa.

L’evento vuole presentare un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo seguendo le tracce di una grande, vera donna. Una pittrice di prim’ordine, un’intellettuale effervescente, che non si limitava alla sublime tecnica pittorica, ma che seppe, quella tecnica, declinarla secondo le esigenze dei diversi committenti, trasformarla dopo aver assorbito il meglio dai suoi contemporanei, così come dagli antichi maestri, scultori e pittori. La parabola umana e professionale di Artemisia Gentileschi (1593 – 1653), straordinaria artista e donna di temperamento, appassiona il pubblico anche perché è vista come un’antesignana dell’affermazione del talento femminile, dotata di un carattere e una volontà unici.

Lo studio dell’opera di Artemisia Gentileschi si è spesso basato su semplici stereotipi semplificati che hanno letto la produzione della pittrice ora come reazione alla violenza subita da Agostino Tassi, ora come manifestazione di un carattere deciso e spregiudicato. Artemisia è stata ritratta dalla critica come una ragazza “lasciva e precoce” – come la definisce Rudolf e Margot Wittkower nel 1963 – che sapeva sfruttare il proprio potere seduttivo per conquistare il successo in una professione maschile, oppure come una povera vittima in cerca di rivalsa. La verità sta forse nel mezzo: dalla biografia della pittrice emerge una personalità complessa e contraddittoria, troppo spesso fraintesa da una lettura dal taglio eccessivamente “femminista” che non sempre ha giovato alla comprensione dell’artista.

Artemisia nasce a Roma, nel 1593, da Prudenza Montone e dal pittore Orazio Gentileschi. Orfana di madre fin da bambina si avvicina alla pittura, osservando i quadri del padre e posando per lui. Per il timore del giudizio della gente, Gentileschi, che avrebbe desiderato che la figlia diventasse monaca, la tiene segregata in casa, concedendole l’accesso alla bottega a patto che nessuno le rivolga la parola.

Spirito libero, Artemisia mal sopporta la clausura e passa ore e ore alla finestra, abitudine che non si addice a una ragazza di buona famiglia. L’infanzia di Artemisia è assai diversa da quella di un’altra artista che l’aveva preceduta, Lavinia Fontana, cresciuta in un ambiente ricco di stimoli culturali. Orazio Gentileschi è un buon pittore ma non ha ancora raggiunto un successo che gli garantisca una vita agiata, ha pochi amici e poche conoscenze altolocate. I suoi sforzi per proteggere la figlia si riveleranno da lì a poco del tutto inutili. Agostino Tassi, suo collaboratore e amico di famiglia, violenta Artemisia. La relazione tra i due continua dopo l’episodio, tanto da aver fatto dubitare che la ragazza non sia vittima ma bensì l’amante del Tassi. Nel processo per stupro intentato contro il Tassi, Artemisia si difende sostenendo che l’uomo l’ha ingannata, promettendole di sposarla e tenendole nascosto il fatto che una moglie l’avesse già. Nel corso del processo Artemisia subisce una nuova violenza: viene sottoposta a tortura e giudicata pubblicamente. Alla fine del processo, conclusosi con una lieve condanna per il Tassi, Artemisia accoglie come una liberazione la partenza per Firenze, a seguito dell’uomo che suo padre le ha scelto come marito, Pietro Antonio Stiattesi. Artemisia non ha mai smesso di dipingere e di migliorare il suo stile, modellandolo sugli esempi paterni e sulle tele di Caravaggio che ha ammirato nella cappella Cesari in Santa Maria del Popolo, la chiesa parrocchiale della sua infanzia. A Firenze è probabile che abbia incontrato Giovan Battista Caracciolo. Tornata a Roma conosce Simon Vuet e diventa forse amica di sua moglie, Virginia da Vezzo, anch’essa dedita all’arte. Nel 1630 si trasferisce a Napoli dove frequenta un gruppo di pittori caravaggeschi, tra i quali lo stesso Caracciolo e lo Stanzione. Nel 1637 raggiunge il padre alla corte di Carlo I d’Inghilterra. Tornata a Napoli nel 1641 vi resta fino alla morte, nel 1652. Un’eccezione dunque, quella di Artemisia: una donna del XVII secolo che viaggia, lavora come pittrice alla stregua di un uomo, si procaccia committenze di rilievo, gestisce la propria professione con un piglio tutto maschile e viene rispettata fino a essere accolta all’Accademia del Disegno di Firenze e all’Accademia dei Desiosi a Roma. La sua biografia, oggetto di rielaborazioni romanzesche ha troppo spesso messo in secondo piano le straordinarie qualità artistiche della pittrice. Il suo stile, memore del naturalismo lombardo mediato da Caravaggio, sa rielaborare con accenti personali il linguaggio del padre; la sua capacità narrativa è sorprendente.

Le storie raccontate da Artemisia incantano e rendono lo spettatore partecipe della scena rappresentata. Con profonda consapevolezza del proprio ruolo di artista. Artemisia si autoritrae come allegoria della pittura, proponendo un’immagine dal doppio registro che sovrappone e identifica l’autore e la propria arte, in un gioco di rimandi irrealizzabile da un pittore uomo.

Punto focale per suggestione della mostra di Palazzo Braschi è Giuditta decapita Oloferne (Napoli Museo Nazionale di Capodimonte). Nelle immagini del tardo Medioevo e del Rinascimento, Giuditta, che escogitò un piano per uccidere il generale assiro Oloferne, era ritratta come un’eroina vittoriosa: incarnava virtù nobili come la castità e il coraggio, ed era associata alla Vergine Maria. Alcuni artisti cinquecenteschi esaltarono la bellezza della giovane vedova che sedusse Oloferne con le sue grazie e con l’inganno lo attirò alla morte. Artemisia appena diciannovenne, riuscì a creare una delle più credibili e insieme potenti rappresentazioni dell’eroina biblica, fondendo un approccio pragmatico – in che modo due donne potevano sopraffare un uomo – e un insieme compositivo veramente esplosivo, che trasmetteva l’idea del potere femminile, preannunciando la dirompente drammaticità del barocco. La composizione creata atteggiando gli attori nelle posizioni desiderate, dando alla scena il senso di un evento osservato e cogliendo, così tutto l’orrore e il coraggio dell’azione. Il groviglio di pallide membra, illuminate da una luce proveniente da sinistra, in primo piano, suscita coinvolgimento drammatico e contribuisce a fissare l'impressione di lotta e disordine suggerita dalle lenzuola disfatte. L’inquadratura serrata accresce la forza dell’immagine.

 

Maria Paola Forlani


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