Arte e dintorni
Bellotto e Canaletto. Lo stupore e la luce
18 Gennaio 2017
 

Bellotto e Canaletto. Lo stupore e la luce”, mostra a cura di Bożena Anna Kowalczyk, porta cento opere tra dipinti, disegni e incisioni – un terzo delle quali mai esposte prima in Italia – alle Gallerie d’Italia a Milano.

Il progetto espositivo è dedicato al genio pittorico e all’intelligenza creativa di due artisti di spicco del Settecento europeo: Antonio Canal, detto “Il Canaletto”, e suo nipote Bernardo Bellotto, infatti, seppero trasformare il vedutismo veneziano da genere peculiare a corrente d’avanguardia che caratterizzò quel periodo.

Non è certo la prima volta che la pittura italiana tratta, oltre ai temi tradizionali, quello della veduta naturale. Basta pensare ai paesaggi senesi di Ambrogio Lorenzetti, dove tuttavia, più che panorami, si può parlare di cartografie còlte a volo d’uccello, nel Seicento i paesaggi appaiono idealizzati, classicheggianti, o, meglio, «eroici»; ma il senso della natura (come luogo in cui l’uomo vive) e della città (come ambiente sociale) è piuttosto insito nella concezione rinascimentale, fiorentina e in generale veneziana in particolare ricordando le ambientazioni cittadine di Gentile Bellini e (ancor più significative) del Carpaccio; si ricordino quelle naturalistiche di Giovanni Bellini e del Giorgione, a cui si possono aggiungere quelle di Tiziano e di Sebastiano del Piombo.

Ma in tutti questi casi, la città e la natura, sebbene assumono nel quadro un ruolo non secondario, servono come scenari per il fatto narrato dal pittore. È soltanto nel Settecento che la «veduta», indipendentemente dalla presenza attiva dell’uomo, diventa protagonista. Il «vedutismo», più che altrove, si sviluppa a Venezia, sia per il passaggio di numerosi visitatori stranieri che desiderano portare con sé il ricordo di ciò che hanno visto, sia per le richieste di chi, non potendo affrontare un lungo viaggio, vuole almeno vedere riprodotti luoghi tanto famosi, sia, infine, per la naturale inclinazione veneziana alla vita pubblica collettiva e per l'interesse pittorico che può offrire una città costituzionalmente permeata di colore.

Il vedutismo settecentesco ha due filoni principali: l’uno si dedica al paesaggio di fantasia o «capriccio», ossia dipingere un paesaggio totalmente inventato, o, più spesso, costituito da elementi reali tratti da luoghi diversi e mescolati liberamente e risponde perciò alle esigenze del «pittoresco»; il secondo, invece, preferisce riprodurre oggettivamente la realtà ed è quindi più direttamente influenzato dalle teorie illuministe.

Questa seconda corrente ha un percussore in Gaspar Van Wittel che operò principalmente a Roma, ma che durante un soggiorno a Venezia (1694), aveva disegnato immagini della città, successivamente tradotte in pittura, comprendendone sempre il valore atmosferico lagunare. Si può perciò affermare che Van Wittel inaugura virtualmente la storia della veduta veneziana del Settecento, stabilendone l’impostazione visiva e individuando, per primo, punti di vista che il Canaletto rese famoso.

Quindi dopo Van Wittel e Luca Carnevalis (Udine, 1663 – ivi 1729), il primo importante vedutista veneziano è Antonio Canal, detto il Canaletto (Venezia, 1697 – ivi, 1768), che dopo aver iniziato la sua attività insieme al padre come scenografo teatrale, «annoiato della indiscretezza de’ poeti drammatici» – annota uno storico contemporaneo – «scomunicò solennemente il teatro», recandosi a Roma, dove conobbe probabilmente Van Wittel, e, tornato a Venezia, si mise a dipingere immagini della sua città, raggiungendo grande fama.

Le vedute di Canaletto sono scrupolosissime. Anzi, per ottenere maggiore verità di quanta non possa restituirla l’occhio umano, si serviva, come tutti gli altri vedutisti, di uno speciale apparecchio. La «camera ottica», uno strumento (conosciuto fin dai tempi antichi) che, similmente alla «camera oscura», facendo passare i raggi della luce attraverso un forellino all’interno di una scatola, permette di proiettare l’immagine della realtà sulla superficie opposta, dove appare capovolta e sfocata; raddrizzata e resa nitida con opportune lenti e specchi, questa immagine, riflessa su uno schermo di carta oleata o su vetro smerigliato, veniva ricalcata a disegno dall’operatore (in mostra è visibile un esemplare dell’epoca).

Le vedute del Canaletto non sono immagini anonime riprodotte ad uso dei turisti.

Il pittore, attraverso i tòcchi che sintetizzano le forme degli uomini e il lieve moto ondoso delle acque scintillanti al sole, attraverso le macchie di colore e, soprattutto, attraverso la luce, rende il valore atmosferico della città, la mobilità dei riflessi, la continuità della vita nei suoi molteplici aspetti e riesce a restituirci Venezia, nei suoi luoghi, celebri o no, animati da poche o da molte persone, in momenti qualsiasi o in giornate di festa.

Bernardo Bellotto (Venezia 1721 – Varsavia, 1780), figlio di una sorella del Canaletto, iniziato alla pittura dal celebre zio, se ne distacca gradualmente spostando il suo interesse dalle vedute veneziane a quelle della terra ferma, in Italia e, successivamente, all’estero, ricercatissimo per documentare immagini di Dresda, di Monaco, di Vienna, di Varsavia.

Più di Canaletto, il Bellotto ricerca la verità, la precisione, il dettaglio, servendosi della «camera ottica» e raggiungendo una tale esattezza che, quando i polacchi, al termine dell’ultima guerra mondiale (1939-1945), ricostruirono con amore Varsavia, selvaggiamente distrutta dagli eventi bellici, si serviranno non di fotografie (apparentemente tanto più fedeli alla realtà), ma delle vedute del Bellotto.

Le immagini del quale, invece che nella morbida luminosità veneziana dello zio, vivono in un’atmosfera fredda, limpida, immobile, che rende ogni dettaglio netto e tagliante, con un’intonazione verde-grigia, giustificata dalla realtà climatica delle pianure europee centro-settentrionali, ma non quando la usa per i paesaggi italiani.

 

Maria Paola Forlani


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