Dialogo Tf
Gianfranco Cord́. La contraddizione teologico-politica nel respiro del due 
Speciale “Pensiero contemporaneo”/ 1. Intervista a Roberto Esposito sul volume “Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero” (Einaudi, 2013)
06 Ottobre 2016
 

All’interno del suo libro Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, 2013) Roberto Esposito individua diversi dispositivi. Il primo dispositivo è quello della persona: l’Uno porta dentro di sé le tracce indelebili del Due. Questo vale per Hegel. E poprio attraverso il dispositivo di persona, Hegel stesso conferisce al proprio discorso una tonalità teologico-politica. Ora, lungo il filo del dispositivo della sovranità, la teologia politica di Hegel trova in Carl Schmitt il proprio esito ultimo. Con il dispositivo della macchinazione, Heidegger fa scivolare senza soluzione di continuità, dall’ambito teologico a quello politico. Al centro del dispositivo della teologia politica vi è la tendenza del Due a farsi Uno, per Esposito. Attraverso la subordinazione di una parte al dominio dell’altra avviene questo processo. Che è un altro dispositivo: l’articolazione fra universalismo ed esclusione, fra unità e separazione.

 

«L’ostacolo di fondo a penetrare nell’orizzonte della teologia politica sta, insomma, nel fatto che ci troviamo già al suo interno» lei scrive a pagina 3 del suo libro. Questo «interno» (in cui ci troviamo) è direttamente teologico-politico o risente semplicemente dell’influenza della teologia-politica?

Questo interno è teologico-politico. Se si limitasse a risentire dell’influenza della teologia politica, significherebbe che la teologia politica sta in un’altra sfera da quella linguistica, concettuale, storica, della nostra realtà. È quanto Heidegger pensa della tradizione metafisica e del nichilismo a essa connessa. Noi siamo interni a quella storia – non esiste un’altra storia in cui potremmo trasferirci. Ciò non vuol dire che la teologia politica, nel cui orizzonte semantico ed effettuale ci muoviamo, governi allo stesso modo tutti i nostri atteggiamenti. Né che i modi di abitare tale orizzonte siano gli stessi. Per esempio c’è una netta differenza, pur nella comune inerenza alla teologia politica, tra i tre monoteismi. E anche all’interno della cultura di derivazione cristiana esistono sensibili differenza sul modo di intendere la relazione tra teologia e politica. È vero, per esempio, che la secolarizzazione è essa stessa una categoria teologico-politica. Ma essa apre una tensione con l’universo teologico all’interno del quale pura si situa. Quanto, poi, alla tradizione filosofico-politica, le differenze sono altrettanto importanti. Sono autori teologico-politici sia Hobbes che Hegel e, in un altro senso dell’espressione, Spinoza. Ma quante differenze tra di loro! Spinoza, per esempio, pur scrivendo un trattato teologico-politico, al contempo decostruisce il linguaggio teologico-politico.

 

Noi parliamo da almeno due millenni un lessico che è teologico-politico. Il nostro lessico poteva essere altrimenti che questo?

Dentro le coordinate in cui è nata e si è sviluppata la tradizione occidentale, a partire dalla Grecia e, soprattutto, da Roma antica, il nostro lessico non poteva esser che questo. Anche se non parlerei di un destino, o di una destinazione, nel senso di Heidegger. Si tratta di una vicenda ricostruibile secondo modalità storiche. All’interno di questo orizzonte, si sono date, e ancora si danno, delle alternative possibili. Prendiamo, per esempio, il linguaggio più strutturato in senso teologico-politico, quello della Chiesa cattolica. Ebbene, anche in questo caso, le scelte dei pontefici e dei Concili hanno a volte consolidato la tradizione teologico-politica, altre volte l’hanno parzialmente trasformata. Ciò vale, a maggior ragione, per l’ambito delle istituzioni politiche. È vero, ad esempio, che rivoluzionari e controrivoluzionari, al tempo della Rivoluzione francese, condividevano un certo linguaggio di derivazione teologica. Eppure il loro scontro, non soltanto politico, ma anche ideologico, è stato reale e ha prodotto effetti altrettanto reali. Benché nella politica contemporanea i partiti politici in Occidente abbiano subito un processo di progressiva omologazione, anche in questo caso esistono delle differenze che sarebbe inutile e controproducente negare.

 

Il politico e il teologico sono due concorrenti. Il politico cattura il teologico; il teologico cattura il politico. Il politico esclude il teologico; il teologico esclude il politico. Lei scrive a pagina 5: «L’intera interrogazione filosofica sulla teologia politica, aperta da Hegel all’inizio dell’Ottocento, esprime, ma allo stesso tempo cela, questo incrocio violento – la presenza del Due all’interno dell’Uno, la prepotenza di una parte che si vuole tutto cancellando l’altra». Ma questo Due che (gioca all’interno dell’Uno) non è una contraddizione?

Sì, è una contraddizione. L’intero linguaggio teologico-politico è di per sé antinomico – una inclusione escludente, come proprio la filosofia della storia di Hegel testimonia nella maniera più evidente. La stessa contraddizione è ravvisabile nella teologia cristiana trinitaria. Come è concepibile, fuori dalla contraddizione, una unità fatta di tre persone, come quella divina? Oppure, nel Cristo, una persona fatta di due nature? Hegel riprende in maniera esplicita tale contraddizione, ponendola al centro del proprio discorso. Solo che egli ritiene che tale contraddizione abbia una potenza produttiva, nella misura in cui la negazione è ‘tolta’ da un punto di vista superiore. Ora propria questa idea di ‘toglimento-superamento’ della contraddizione è contraddittoria con i suoi stessi presupposti. Il ‘negativo’ non è eliminabile, come ha fatto notare Adorno nella sua ‘Dialettica negativa’. Hegel, insomma, pur avendo individuato la struttura contraddittoria del reale, e anche del discorso, all’interno dell’orizzonte teologico-politico, pensa di poterne uscire attraverso il suo stesso linguaggio. In questo senso egli è il maggiore filosofo teologico-politico moderno, dal momento che la prestazione maggiore della macchina teologico-politica sta appunto nel mostrarsi risolutiva della propria contraddizione.

 

Per Carl Schmitt la categoria di persona reca al proprio interno il concetto eracliteo di pòlemos. Partendo dalla dialettica amico-nemico, la categoria di persona rappresenta la politica perché portatrice di ordine nel pòlemos di amico-nemico. Umberto Eco diceva «costruire il nemico». C’è sempre bisogno di pòlemos? C’è sempre bisogno di un nemico?

Ce ne è sempre bisogno nell’orizzonte teologico-politico che abitiamo. Non per nulla anche le teorie pacifiste si esprimono in termini di inimicizia nei confronti delle posizioni opposte. La negazione è una struttura insuperabile del nostro linguaggio e della nostra stessa vita. Cosa diversa è trasformare questo negativo logico in un negativo storico, o meglio ontologico – individuando, o costruendosi, di volta in volta, un nemico. Questo passaggio dalla logica all’ontologia è la mossa metafisica, o teologico-politica, fondamentale. Quando dico ‘metafisica’ o ‘teologico-politica’, questi due termini non vanno immediatamente identificati. Tuttavia essi sono correlati e implicati l’uno con l’altro. Su questa correlazione andrebbe aperta una linea di ricerca filosofica. La teologia politica è in qualche modo interna alla metafisica, di cui segna una svolta, o meglio una piega. Quando e dove questa piega vada situata è oggetto di discussione tra gli studiosi. Assmann la individua già nella tradizione egiziana. Altri credono di riconoscerla nella filosofia platonica. Altri ancora – secondo una posizione che tendo a condividere – individuano la genesi della teologia politica nel punto di confluenza tra la primissima teologia cristiana e la tradizione giuridica romana.

 

La politica è ordine. Il Due è disordine nell’ordine o, come scrive Lei a pagina 5, «che conferisce all’universale la forma dell’esclusione». Escludere il disordine attraverso l’ordine, tamponare il conflitto con la pace, far regnare la politica sul caos: il progetto teologico-politico ha fallito?

In verità la politica non è solo ordine. È ordinamento, di volta in volta instabile e problematico, del conflitto che, in forme sempre diverse, contrappone gli uomini. Fare della politica solo ordine, neutralizzazione del conflitto, è precisamente il modello teologico-politico, condotto, proprio a partire da tale presupposto, a ricreare un conflitto ancora più aspro. Il ‘Due’ è il conflitto all’interno dell’ordine. Esso può avere una forma escludente, distruttiva, ma anche una forma produttiva, capace di espandere e far prosperare l’organismo politico. È quanto avviene, secondo Machiavelli, alla Repubblica romana antica, che dovette la sua espansione precisamente al conflitto tra nobili e plebei. La tesi, rigidamente teologico-politica, di Hobbes è invece che l’ordine possa nascere solo dalla definitiva neutralizzazione del conflitto – il modello del Leviatano. Da questo punto di vista il modello teologico-politico di riduzione del conflitto all’Uno, attraverso l’esclusione di uno dei due poli, fallisce sempre. Ma questo stesso fallimento è in un certo senso previsto, perché ricrea le condizioni per una nuova neutralizzazione o per una nuova esclusione. Il problema che io ho posto nel mio libro non è quello della eliminazione del Due, ma quello della sua riconduzione a una dialettica politica non escludente. Una politica non teologica sarebbe quella che prevede come normale la dialettica di ordine e conflitto, senza pensare alla eliminazione di uno dei due termini.

 

Senza il richiamo al concetto di «persona» (pagina 7) la costituzione politica si sfalda e non può nemmeno realizzarsi. La politica ha bisogno di persone. Ma le persone hanno bisogno della politica?

Tutto il mio libro, come anche quello precedente, intitolato Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, è dedicato a una decostruzione del concetto, o meglio del dispositivo, della persona, inteso come il dispositivo centrale della macchina teologico-politica. Il paradigma di persona, nato da un lato dalla teologia cristiana e dall’altro dalla logica giuridica romana, esprime sempre una sorta di inclusione escludente. Sia all’interno del genere umano, in cui ad alcuni viene assegnata la qualifica di persona, a differenza di altri, considerati non-persone o persone parziali, sia all’interno del singolo individuo, diviso in una parte personale, dotata di ragione e di volontà e in una parte impersonale, coincidente con una dimensione corporea di tipo animale. Dunque la politica a venire, in qualche modo sottratta al meccanismo teologico-politico, non ha bisogno del concetto di persona, anzi può nascere soltanto da una sua decostruzione.

 

Gianfranco Cordì


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