In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Il clan” di Pablo Trapero: una distruttività cieca e misteriosa
28 Agosto 2016
 

Lo straniamento è una tecnica letteraria per la quale luoghi o avvenimenti già familiari al lettore sono colti da un punto di vista inedito, sorprendente; per esempio dal punto di vista di chi quei fatti e quegli avvenimenti li scopre nel momento in cui li descrive, e magari non li comprende, come può capitare a uno straniero che metta piede in una terra sconosciuta.

Si tratta, dicevo, di una tecnica letteraria.

Ma si può dare lo straniamento anche al cinema?

L'autore argentino Pablo Trapero, nel suo ultimo film intitolato Il clan – che aveva vinto il Leone d'Argento per la Migliore Regia al festival di Venezia dell'altr'anno, ma è uscito nelle sale soltanto in questi giorni – ha voluto raccontare la dittatura in Argentina da una prospettiva, per l'appunto, straniante.

Così ha spostato, concentrato, sintetizzato i crimini commessi da quel regime militare, in una dimensione tutta domestica, intesa, credo, a gettare sull'orrore una luce nuova, forse rivelatrice.

Il clan, ispirato a una storia realmente accaduta, racconta dell'organizzazione criminale gestita da un certo Puccio e dai suoi familiari, che sequestra ragazzi di buona famiglia, riscuote il riscatto e li uccide.

Puccio, che faceva parte delle alte sfere del regime dittatoriale, anche dopo la sua caduta, gode di protezioni in alto loco che gli permettono di condurre indisturbato per diversi anni la sua attività criminale.

Ma il legame dei suoi crimini con la dittatura non è soltanto logico, di causa-effetto. Si tratta piuttosto di un rispecchiamento.

Non soltanto egli, a suo modo, ricorre ai sequestri, alle torture, alle esecuzioni sommarie che, come sappiamo, avevano caratterizzato il regime del generale Videla. Ma nella sua casa, dove sono imprigionate le sue vittime, tra i suoi familiari, l'orrore diventa routine, una normalità a cui tristemente ci si rassegna, o a cui non si ha la forza di ribellarsi, o da cui si cerca di evadere dandosi allo sport o alle ragazze, o dove si preferisce non sospingere lo sguardo fino in fondo, anche se le urla delle vittime non fanno dormire: perché poi quell'orrore produce ricchezza, un benessere a cui non si vuole rinunciare.

Insomma: pur decontestualizzato, l'orrore forma intorno a sé quell'insieme di atteggiamenti umani che sono forse tipici di una dittatura, e di cui il nuovo contesto evidenzia la disumanità e l'assurdità.

Insieme alla descrizione incisiva della situazione di base del racconto, l'altra potente invenzione del film di Trapero, è la figura del capobanda Puccio.

I suoi modi levigati, mondani; quei suoi grandi occhi acquosi; la sua fisionomia complessiva che tanto bene si immagina inserita nelle cerimonie del Potere, sono come una maschera del nulla: perché la sua forza di volontà, strenua, indomita, che sottomette quasi tutti i suoi familiari compreso il figlio maggiore, riottoso, è animata, più che dal tornaconto personale, da una distruttività cieca e misteriosa.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 27 agosto 2016
»» QUI la scheda audio)


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