Arte e dintorni
Pinacoteca di Brera. Secondo dialogo “Attorno a Mantegna”
14 Giugno 2016
 

Il rinnovamento di Brera voluto da James Brandburne procede a grande velocità.

A pochi mesi dall’inaugurazione delle sale della pittura ferrarese e marchigiana, la Pinacoteca milanese si presenta con un nuovo atrio d’accoglienza al pubblico e con il riallestimento delle sale medievali, del Rinascimento e del Cinquecento veneto.

In questa circostanza si colloca anche uno dei “dialoghi” previsti per i capolavori di Brera: dopo il primo dialogo tra lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e l’analogo soggetto di Perugino, parte il “secondo dialogo”, che ha come protagonista il Cristo morto di Andrea Mantegna, esposto accanto al Cristo morto e strumenti della passione di Annibale Carracci (prestato dalla Staatsgalerie di Stoccarda) e il Compianto su Cristo morto di Orazio Borgianni della Galleria Spada di Roma (visibile fino al 25 settembre 2016). Il dialogo tra questi tre quadri, accomunati dalla medesima e ardita composizione del Cristo morto «in scurto» (cioè in scorcio) ovviamente nella Sala voluta da Carlo Bertelli e disegnata da Vittorio Gregotti nel 1987.

Il nuovo percorso d’accesso progettato da James Bradburne e dall’architetto Alessandra Quarto parte dal collegamento tra la Biblioteca Nazionale Braidense e la Pinacoteca, attraverso un comune ingresso fornito dalla riapertura della porta principale, posta in cima allo scalone monumentale. Varcata tale porta il visitatore entra a sinistra nel lungo corridoio d’ingresso, che era diventato parte integrante della pinacoteca ospitando prima la donazione Emilio e Maria Jesi e poi gli affreschi di Bramante e Luini. Oggi il corridoio è destinato i servizi d’accoglienza e gli apparati didattici, fino a una porta vetrata automatica che rappresenta il nuovo varco alle sale espositive ed è posta a garanzia del microclima interno.

Varcata la porta vetrata, il visitatore può scegliere un doppio percorso o entrare nelle salette di sinistra dove trova esposte le opere che vanno dalla fine del Duecento al Quattrocento. In entrambe i casi si sfocia nella lunga sala di Gregotti dove sono conservati in particolare i capolavori di Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. Il visitatore noterà che il riallestimento è caratterizzato da nuovi colori per le sale, differenziati per scuole pittoriche e cronologia, a tinte molto decise di rosso e di blu, che guidano i visitatori nel percorso che va dal Duecento al Cinquecento. Un percorso segnato a un certo punto dal pannello su cui è appeso il pezzo forte e celebre della sezione il Cristo morto di Mantegna.

L’opera che in precedenza aveva vissuto l’allestimento scenografica di Ermanno Olmi nel 2013 su commissione di Sandrina Bandera, ora definitivamente smantellato. Per esaltare al massimo la dimensione religiosa e drammatica del dipinto, Olmi aveva fatto abbassare il quadro «nella prospettiva giusta, all’altezza in cui il corpo doveva essere guardato», e – privandolo della cornice antica – lo ha fatto incastonare in un pannello scuro perché fosse «affogato nel nero, nello spazio infinito, nell’assoluto». La lettura e la sistemazione dell’opera volute da Olmi – ispirate a una profonda religiosità e all’idea che la tela fosse stata realizzata da Mantegna per ricordare il dramma della morte ravvicinata di due figli, secondo notizie rinvenute da Sandrina Bandera – aveva provocato una mezza insurrezione nell’opinione pubblica, soprattutto in quelle persone che – sorrette da forti valori laici – non accettavano l’idea che Cristo morto di Mantegna, esposto in un museo napoleonico, assumesse il ruolo di “reliquia” cattolica e dismettesse quello di un neutrale capolavoro della pittura rinascimentale italiana.

E così, in occasione dell’attuale “dialogo” tra il Cristo morto e strumenti della passione di Annibale Caracci e il Compianto su Cristo morto di Orazio Borgianni, il posizionamento voluto da Olmi con le luci basse e il quadro posto all’altezza «giusta» (cioè quella di un fedele prostrato in ginocchio davanti al corpo esamine del suo Dio) è stato messo da parte.

Adesso s’è scelto di ricollocare il capolavoro a metà del corridoio, al centro del cannocchiale – visivo, appeso a un semplice pannello alla convenzionale “altezza d’occhi” recuperando la sua antica cornice dorata.

Con quest’opera (1480) Andrea Mantegna sembra quasi aver posto una sfida a se stesso: cercando l’illusione della profondità, di uno spazio dove il corpo morto di Gesù “stia” con tutto il suo peso e il suo volume, senza nessun altro ausilio che la “prospettiva” del corpo stesso. Quello spazio così sapientemente costruito tante volte attraverso le regole geometriche della prospettiva dell’architettura, o di quella dei paesaggi e delle figure digradanti in profondità, è qui reso pienamente solo dalla presenza della figura; perfino il colore è ridotto al minimo: un tono livido che disegna le pieghe del lenzuolo, i muscoli del corpo e i lineamenti del volto, secondo una soluzione monocroma.

I volti piangenti delle figure a sinistra sembrano quasi superflui, o sono soltanto un ulteriore invito al coinvolgimento dell’osservatore.

Perché l’effetto prospettico del corpo di Gesù che è sdraiato su una tavola, visto di scorcio, è decisamente straordinario e coinvolgente. Il corpo del Cristo morto non sprofonda nell’ombra, ma piuttosto “viene fuori” verso l’osservatore, simmetrico nell’atteggiamento delle gambe e delle braccia, con il volto reclinato sulla spalla sinistra, appena dolente nella pace della morte. Molto probabilmente l’opera nasce dalla volontà di stupire e di dimostrare a se stesso e agli altri la possibilità di un’arte, come la pittura, capace di rendere la profondità e il volume, anche senza l’aiuto della prospettiva architettonica; di dimostrare come si possa uscire vincente in quella gara, detta “paragone”, che vede di fronte pittura e scultura per decidere quale delle due arti abbia maggior “dignità”, ma soprattutto sia in grado di rendere il volume, la profondità, il tutto tondo, anche senza “girarci attorno”. E, nelle mani di Mantegna, quello che doveva essere un “pezzo di bravura”, diventa l’espressione di un profondo sentimento di pietà e di amore.

La permanenza romana del Cristo morto di Mantegna parrebbe comprovata dal fatto che alcuni pittori presenti a Roma ne trassero ispirazione. In quest’ottica va letta la presenza temporanea, accanto al capolavoro, delle tele di Annibale Carracci – che dipinse probabilmente il Cristo morto e strumenti della passione prestato dal museo di Stoccarda all’inizio della sua carriera verso il 1582-1584 – e di quella del pittore caravaggesco Orazio Borgianni, che realizzò addirittura numerose versioni dello stesso soggetto: il Compianto su Cristo morto che ora ammiriamo a Milano (databile tra il 1610 e il 1615) è quello della Galleria Spada di Roma. Ma Carracci e Borgianni videro sul serio l’originale di Mantegna? Forse. Ѐ un'ipotesi.

 

Maria Paola Forlani


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