Diario di bordo
Marco Morosini. Ma non basta limitare le trivelle in Italia
14 Aprile 2016
 

Ci sono trivelle vicine e trivelle lontane. Una vittoria dei sì nel referendum del 17 aprile ridurrebbe il rischio di incidenti petroliferi vicino alle nostre coste, sarebbe un incoraggiamento per chi cerca di ostacolare le estrazioni nel resto del mondo e sarebbe un granello di sabbia nella macchina internazionale dei combustibili fossili

 

 

«Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas – deve essere sostituita progressivamente e senza indugio», ha scritto Papa Francesco (Laudato si’, 165). La preoccupazione per le trivelle vicine però non deve far dimenticare quella per le trivelle lontane, ben più temibili. Contro la loro proliferazione una coalizione di associazioni scientifiche, ambientaliste e religiose hanno protestato il 5 aprile a Pau, nel Sud-Ovest della Francia, contro il convegno delle industrie petrolifere per promuovere l'estrazione di idrocarburi dai fondali oceanici (MCEDD - Marine, Construction and Engineering Deepwater Development).

Le gigantesche trivelle degli oceani sono prodigi d'ingegneria, capaci di perforare i fondali oceanici fino a 3000 metri di profondità. La più potente di esse supera i 3000 di profondità oceanica, costa qualche miliardo e mira a decine di miliardi di profitti. Una trivella più piccola, la Deepwater Horizon è stata condannata a 20 miliardi di risarcimento di una parte dei danni che ha provocato nel 2010 nel Golfo del Mexico .

Secondo The Economist (4 maggio 2013), infatti, “sembrano un non-senso” gli investimenti di centinaia di miliardi di dollari per sviluppare le estrazioni di idrocarburi negli oceani e altrove. «O i governi non sono credibili nell'impegno contro i cambiamenti climatici, oppure le compagnie degli idrocarburi sono sopravvalutate». Il loro valore infatti è determinato dal volume dei loro giacimenti. Le azioni delle prime 200 compagnie di carbone, petrolio e gas erano valutate complessi­vamen­te a 7.000 miliardi di dollari nel 2011. Nelle principali borse del mondo dal 20 al 30 per cento dei valori trattati sono collegati agli idrocarburi. A essi va aggiunto il valore dei giacimenti delle grandi compagnie di Stato. Se 80 per cento degli idrocarburi dovesse rimanere nel sottosuolo, come molti raccomandano, essi diverrebbero unburnable carbon (carbonio non bruciabile). Sarebbero quindi uno stranded asset (patrimonio incagliato), una gigantesca carbon bubble (bolla del carbonio), capace di mandare in bancarotta diverse compagnie petrolifere, rovinando piccoli e grandi investitori (fondi pensione, fondi statali, assicurazioni) e sconvolgendo l'economia mondiale.

L'analista finanziario James Leaton dirige il think-tank (centro-studi) londinese Carbon Tracker, che studia la carbon bubble. Secondo Leaton: «Le bolle si formano perché ognuno pensa di essere il miglior analista e di potersi spingere fino all'orlo del precipizio, fermandosi quando gli altri vanno avanti». I climatologi, dal canto loro, ci dicono che se l'estrazione di carbone, petrolio e gas non diminuisse drasticamente, la loro combustione accelererebbe il cambiamento climatico già in atto, con nefaste conseguenze ecologiche, sociali, politiche e, infine, anche economiche. Se gli analisti finanziari e quelli del clima hanno ragione, sembra difficile evitare il dissesto ecologico senza provocare un dissesto finanziario, e viceversa.

La minaccia ecologica e finanziaria dei combustibili fossili è riassunta in tre numeri: 2, 2.800, 570.

2 gradi centigradi è l'aumento di temperatura globale che la comunità internazionale ha deciso di cercare di non superare, per evitare conseguenze troppo gravi. Ma quando troppo è troppo? I 2° sono un compromesso politico, non un limite naturale. Il compromesso è tra, da una parte, i governi dei Paesi che più rischiano per i cambiamenti climatici, per esempio quelli delle piccole isole poco elevate, che già oggi vedono salire il livello di un mare che potrebbe presto danneggiarle o in parte sommergerle, e, dall'altra, i governi dei Paesi che vivono della vendita di petrolio o che hanno un tenore di vita vorace d'idrocarburi. Non ci sono “soglie” di temperatura, perché i danni da cambiamenti climatici aumentano gradualmente con il riscaldamento globale. Già l'aumento di 0,8° dell'ultimo secolo molto probabilmente ha causato siccità, desertificazione, perdita di raccolti, migrazioni, scioglimenti di ghiacci montani, artici e antartici, lieve innalzamento dei mari.

Il secondo numero importante è 2.800 Gt (gigatonnellate, ovvero miliardi di tonnellate) di CO2. Questa è la quantità che sarebbe emessa se si bruciassero tutte le riserve d'idrocarburi conosciute.

Il terzo numero è 570 Gt di CO2. Si tratta del cosiddetto carbon budget, la quantità di emissioni che l'umanità può ancora “spendere” (cioè emettere) per avere una probabilità dell'80 per cento di non superare i 2° di riscaldamento del pianeta. Questi numeri sono stimati attraverso decine di modelli matematici sempre più precisi. Essi hanno un margine di errore e di probabilità, ma questi non cambiano sostanzialmente il loro preoccupante significato. Lo stesso vale anche per il valore di circa 6° del probabile aumento di temperatura media globale se le emissioni di CO2 continuassero ad aumentare ogni anno del 3 per cento, come avvenuto in media nell'ultimo decennio. Per questo sempre più scienziati e organizzazioni raccomandano di rinunciare all'estrazione di almeno l'80 per cento delle riserve accessibili d'idrocarburi.

I combustibili fossili saranno gradualmente abbandonati non a causa del loro esaurimento, ma per motivi economici e politici. Da una parte, il loro costo (ricerca, estrazione, e danni ambientali) tende a salire, mentre quello delle energie rinnovabili tende a scendere. Dall'altra, ci si aspetta che la comunità internazionale e i governi penalizzino l'uso dei combustibili fossili (per esempio diminuendo le loro enormi sovvenzioni e tassando le emissioni di CO2) e promuovano (anche con sovvenzioni temporanee) le energie rinnovabili.

Questi processi sono però insufficienti perché lentissimi. Come ha detto Papa Francesco parlando in Bolivia «il futuro dell'umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi».

Ma cosa possono fare i popoli? Cosa posso fare io? Primo, posso eleggere e incalzare rappresentanti politici che accelerino decisamente la transizione verso le energie rinnovabili. Secondo, posso cercare modificare e ridurre i miei consumi, perché quasi tutti i prodotti e i servizi usano e sprecano petrolio. In effetti, un eventuale freno alle trivellazioni vicino alle nostre coste non risparmierebbe petrolio, anzi ne consumeremmo di più per muovere le navi che lo portano da altri continenti. Se non ne riducessimo il consumo, sarebbe allora meglio estrarre “petrolio a chilometro zero” in Italia, evitando il petrolio lontano che scatena guerre e colpi di Stato, come in Medio-Oriente e altrove, e che causa ecocidi e devastazioni umane, come in Nigeria, in Equador e altrove. Difendersi dalle trivelle costiere solo nel nostro cortile, senza ridurre il nostro consumo di petrolio non basta.

 

Marco Morosini

(da L'avvenire dei lavoratori, 14 aprile 2016)


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