Arte e dintorni
Firenze. Carlo Dolci 1616 – 1687
12 Luglio 2015
 

S’intitola “Carlo Dolci 1616 – 1687” la mostra inaugurata nella Galleria Palatina, a Firenze (aperta fino al 15 novembre 2015). Dedicata a Mina Gregori l’esposizione è curata da Sandro Bollesi e Anna Bisceglia (catalogo Sillabe).

Artista osannato dai critici e dai biografi del suo tempo per la realizzazione di opere uniche nel loro genere, eseguite con impeccabile diligenza e con rigore descrittivo che potremmo dire “iperrealista”, Dolci, molto apprezzato anche dai più illustri membri della casa Medici e della nobiltà europea, si distinse per l’esecuzione di dipinti apprezzabili per la magistrale definizione delle sue figure – spesso raccolte in pose estatiche e quasi baciate da un’avvolgente luce lunare che rende gli incarnati simili alla più pura porcellana – e per l’intrigante e quasi maniacale cura nella resa dei dettagli: dalle stoffe soffici e quasi palpabili delle vesti, agli splendidi gioielli, che, usando le parole del biografo Filippo Baldinucci, erano «imitati in modo si stupendo (e vero), che, per molto che si toccasse e ritoccasse la tela per assicurarsi che essi fosser dipinti l’occhio ne rimaneva in dubbio».

Per rendere degnamente omaggio a questo grande maestro sono state selezionate per la mostra quasi cento opere, che tra dipinti e disegni, esprimono l’alto livello qualitativo raggiunto dall’artista nelle sue creazioni. A fare da cornice alle composizioni di Dolci sono esposti anche dipinti e sculture di altri artisti fiorentini del suo tempo o di poco precedenti e un piccolo ma interessante nucleo di pitture riferibili ai suoi allievi, che ebbero l’onore di preservare il linguaggio stilistico dell’artista fino al Settecento.

Nello scenario della pittura fiorentina del Seicento Carlo Dolci occupa un proprio paesaggio intellettuale, perché dalla sua opera emerge un dato di grande contemporaneità: egli sentì l’esigenza di attuare un “programma di genere”, e giacché il linguaggio sacro della Bibbia e del Vangelo si comprende con immediatezza per gli evidenti simboli iconografici, per gli exempla morali e per lo stile dei suoi testi letterari, egli porta un contributo figurativo coerente ed esclusivo alla storia della salvezza e a quella dell’umanità; a questo proposito sono due gli elementi più significativi che emergono congiunti dalla sua vita e dalla sua opera: il primo consiste nell’ammonimento a preparare la pace piuttosto che la guerra (amore-caritas, secondo la più alta elaborazione espressa dalla cultura cristiana del medioevo in poi), e il secondo nell’occuparsi della salute della cura della propria anima (“pazientissima pratica”, non esclusivamente rivolta alla formazione artistica ma anche a quella spirituale). Dolci non si dimostrò, inoltre, in grado di gestire e controllare l’esecuzione di opere di grande dimensione, come rivelano le poche pale d’altare riferibili al suo nome, certamente non annoverabili tra i capolavori dell’artista, nelle quali tutta l’attenzione viene incentrata, più che sulla narrazione e sull’impaginato scenico, sulla poeticità delle figure, sempre estraniate le une dalle altre e quasi raccolte in muto e introspettivo dialogo con Dio, e sulla squisita e raffinatissima definizione delle stoffe in finissimo raso e degli esclusivi gioielli in oro e pietre preziose, pezzi questi ultimi, degni dei più rinomati mastri orafi.

Insieme all’arte legata alle dottrine savonaroliane grande attrazione dovette destare in Dolci la scultura di età postridentina o meglio controriformista dilagata a macchia d’olio su tutta la penisola nel tardo Cinquecento. Tra i maestri di scalpello fiorentino, attivi in quel tempo, vicini allo spirito di Carlino, una posizione di tutto rispetto è da assegnare a Giovan Battista Caccini, protagonista del filone purista di impronta naturalistica. Il lirismo trasmesso da figure dolciane come la Madonna con Gesù Bambino presente nell’Adorazione dei Magi della National Gallery a Londra denota, tra i suoi caratteri stilistici, una conoscenza o meglio un’assimilazione diretta dai prototipi cacciniani, come si evince, ad esempio, dal confronto con il busto marmoreo con la Madonna conservato nell’ex-convento di Santa Maria degli Angeli a Firenze.

Portavoce del verbo divino nell’arte fiorentina del suo tempo e autore di alcuni dei più noti prototipi sacri legati alla devozione popolare, Carlo Dolci ha legato saldamente il suo nome a modelli pittorici che, per la loro immediatezza narrativa e per l’accostante spiritualità delle figure, modelli pittorici, che hanno lasciato una scia indelebile nelle immagini di culto fino ai giorni nostri. È questo il caso delle celeberrime Addolorata e Madonna del dito, proposte con frequenza dall’artista e dai suoi adepti fino a Settecento inoltrato, utilizzate spesso, nel corso dei secoli, come immaginette votive, soprattutto per i cosiddetti “santini”.

«Furono suoi discepoli: in primo luogo Onorio Marinari, suo stretto parente, pittore diligentissimo e di tanto buon gusto, che, avendo fatte opere bellissime, e facendone tuttavia, darà a suo tempo gran materia a noi, o ad altri, di parlare di lui. Agnesa sua figliuola, maritata a Stefano di Carlo Baci setajuolo, la quale imitando la maniera del padre, e conducendo del continuo opere belle, si è guadagnata fin qui non poco nome. Alessandro Lomi e Bartolomeo Mancini sono stati ancora essi discepoli di Carlo: e tanto l’uno che l’altro, colla diligenza, con cui cercano di assecondare il gusto del maestro, danno non poca speranza di ottima riuscita». Così Filippo Baldinucci tratteggia in poche, efficaci righe i contorni della bottega di Carlo Dolci.

Riguardo ad Agnese, la figlia di Carlo, battezzata il 24 settembre 1659, oscura, finora, è stata la data della sua morte tra il 1680 e il 1621. I termini cronologici dell’attività di Agnese si dilatano ma continua a languire il numero delle sue opere certe tra le quali si possono considerare autografi soltanto il giovanile Autoritratto e alcuni dei commoventi fogli appartenenti al celebre taccuino del Fizwilliam Museum di Cambridge, in cui si è creduto di poter ravvisare, piuttosto arbitrariamente, anche le mani di un’altra figlia di Carlo, Agata, insieme ai molti attribuiti ad Agnese.

Per quanto riguarda invece, i dipinti di Agnese ricordati dai documenti, un “Gesù fanciullo” si trovava nella celebre galleria Rinuccini, un “Gesù Cristo che fa l’orazione nell’orto” è citato in un inventario e molte altre opere ancora disperse in aste inglesi. Recentemente le sono stati attribuiti anche un bel San Michele Arcangelo della raccolta Amata, in mostra a Pitti, e un San Sebastiano della Galleria Corsini.

Terreno minato d’insidie attributive, dunque, la bottega di Carlo Dolci, della cui fortuna sono testimoni copie, esorbitanti nel numero e disomogenee nella qualità, proliferate anche nell’Ottocento, che troppo spesso hanno trasformato i dipinti di Dolci da altissimi capolavori in rispettive immagini devozionali.

E pensare che soltanto pochi anni dopo la generale considerazione riservata alle copie avrebbe iniziato il suo lento e inesorabile declino: «la pittura», avrebbe asserito, infatti, Edgar Degas, «è innanzitutto un prodotto dell’immaginazione, non deve mai essere una copia. L’aria che si vede nei quadri dei maestri non è replicabile».

 

Maria Paola Forlani


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