Manuale Tellus
Renato Pasqualetti. L’avventura dei Canti Orfici 
Appunti per una serata su Dino Campana alla Società Filarmonica di Macerata (21 aprile 2015)
24 Aprile 2015
 

Le vele le vele le vele
che schioccano e frustano al vento
che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
volubil che l'onda che ammorza
ne l'onda volubile smorza...
Ne l'ultimo schianto crudele...
Le vele le vele le vele.

 

 

“Setaioli mi salvi che sto morendo!”

 

Il primo marzo del 1932 questo grido pieno di paura risuona da una stanza del corridoio del reparto maschile del Manicomio di Villa di Castel Pulci nel comune di Scandicci, attaccato a Firenze.

Setaioli è un infermiere capo che sta cercando di aiutare e dare sollievo a Dino Campana, un uomo che lì è internato dal gennaio del 1918 e che è stato colpito da una violenta setticemia.

14 anni di manicomio che Dino all’inizio ha sopportato e che a poco a poco ha accettato tanto da confessare allo psichiatra Pariani, che va a interrogarlo in Manicomio per scrivere un libro sul rapporto tra arte e pazzia, che lui lì sta benissimo e non ha nessuna intenzione di uscire.

“È stato sempre con noi” dice un tal Borghesi un altro ricoverato in manicomio “letturale, era un gran letturale lui. Si metteva col libro negli angoli, si appoggiava al muro e strisciava, strisciava fino a terra. Poi leggeva il libro seduto per terra…”

Alle 11 e tre quarti del 1° marzo del 1932 Dino Campana, uno dei poeti più controversi del ‘900 italiano, muore a 46 anni. Da un anno ormai Dino stava molto meglio, tanto che i medici del manicomio stavano organizzando la sua dimissione.

Muore per una setticemia probabilmente provocata da una ferita che si era fatto con un filo spinato. Un destino crudele e particolare, quasi che Campana guarito e non più “matto” non se ne potesse andare via dal manicomio in giro per il mondo, come aveva sempre fatto spinto da un’ansia piena di inquietudine...

Il 2 marzo del ‘32, il corpo di Campana viene inumato nel cimitero di San Colombano a Badia a Settimo, ma nel 1942, su interessamento di Piero Bargellini, viene data alle spoglie del poeta una sepoltura più dignitosa e la salma trova riposo nella cappella sottostante il campanile della chiesa di San Salvatore. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica esplosiva il campanile distruggendo nel contempo anche la cappella.

Nel 1946 le ossa del poeta, in seguito ad una cerimonia alla quale partecipano numerosi intellettuali dell'epoca, tra i quali Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Ottone Rosai, Vasco Pratolini e altri, vengono collocate all'interno della chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo, raggiungendo così la loro dimora attuale.

 

 

Qualche cenno biografico del padre del nostro libro

 

Dino Campana nasce a Marradi, un comune in provincia di Firenze dell’Appennino tosco-romagnolo, il 20 agosto 1885 primogenito di Giovanni Campana maestro elementare e Francesca (Fanny) Luti “atta alla casa”, come allora si diceva delle donne che si dedicavano alla casa e all’educazione dei figli.

> 1891-1900 frequenta le elementari e il ginnasio; è un ragazzino intelligente; appena a 8 anni la mamma lo fa esibire in recitazioni di poesie in francese;

> 1900 va pendolare al liceo di Faenza. I compagni di classe lo deridono: è un montanaro chiuso, scontroso e strano. Secondo una testimonianza del padre comincia a manifestare un’indole “brutale e morbosa” soprattutto nei confronti della madre. L’anno si conclude con un’inaspettata bocciatura. Va privatista al liceo D’Azeglio di Torino e convittore al liceo di Carmagnola finisce il liceo.

> 1903 a 18 anni si iscrive all’Università di Bologna corso di laurea in chimica. Poi si trasferisce all’Università di Firenze e non da neppure un esame. Nel 1905 torna a Bologna.

Paradossalmente Dino per accondiscendere alla volontà dei suoi si iscrive all’Università di scienze e poi di farmacia. Lui che aveva la poesia come unico sentire, che all’Università frequentava lezioni di letteratura e filosofia. Lui che a 24 anni parlava correntemente il francese, l’inglese, leggeva e capiva il tedesco, e leggeva e traduceva il greco e il latino, tutto da autodidatta. Lui che ad appena 23 anni conosceva perfettamente Friedrich Nietzsche e la sua teoria de “l’eterno ritorno”, morto nel 1900 e praticamente sconosciuto in Italia.

> 1906 inizia a 21 anni formalmente il calvario di Campana; da qualche esame, poi fugge a Genova e viene rispedito a Marradi dalla polizia. Il 10 maggio il padre lo porta da un illustre psichiatra per farlo internare in manicomio. Scappa di nuovo a Milano e in canton Ticino, poi in Francia, da dove viene rimpatriato con un foglio di via il 7 agosto. Dietro pressione del padre e di notabili marradesi che non sopportano un “diverso”, se ne dispone l’internamento al Manicomio di Imola. Dopo un mese di osservazione il ricovero è definitivo e perde i diritti civili. Il 31 ottobre il “matto” per volontà del padre che ne assicura la custodia, torna a Marradi.

> 1907/1909 gira e frequenta l’arte. 1909 ricoverato in manicomio a Firenze per ordine del sindaco di Marradi viene dimesso per insufficienza di titolo (!).

Tutti i documenti delle varie internazioni manicomiali, ritrovati in maniera meticolosa da Chaco Millet, il maggior biografo di Campana, attestano in maniera agghiacciante e certa che non c’è mai stato motivo medico psichiatrico per un suo ricovero. È la storia dei manicomi italiani e delle internazioni coatte, cessate solo con la legge 180 di Basaglia.

> 1910 Va in Argentina e torna in Belgio viene arrestato e poi rimandato a Marradi, dove nessuno lo vuole.

> 1911 frequenta le lingue, la letteratura e la pittura tutte arti estranee ai suoi corsi di laurea.

> 1912 pubblica le prime poesie su un giornale goliardico di Bologna, Il papiro.

> 1913 scopre Lacerba e il futurismo. Viene arrestato e condotto in carcere a Marassi e poi rispedito a Marradi. Nell’estate per la prima volta decide di mettere insieme le cose che ha scritto durante la sua vita errabonda e così comincia la storia del nostro protagonista di questa sera: Canti Orfici.

> 1917/1918 in conseguenza di una lue contratta probabilmente a Genova nel 1912 e della vita di frustrazioni e di sofferenze, Campana diventa “matto” e viene definitivamente internato in manicomio.

 

 

Un profilo di Campana

 

Dal 1906 al 1913 la vita di Campana è un calvario tra carceri e manicomi. Ma per molti che si sono interessati alla sua storia Campana non è un matto o un clochard, è molto simile ai contestatori del 1968: (capelli lunghi, abiti dimessi, niente soldi e nessun consumismo; vino e caffè di cui Dino era avidissimo…) quelli che mettono in dubbio le regole borghesi, la famiglia, le istituzioni volendo sostituire a quelle la poesia, come i giovani del ’68 volevano sostituirle con la fantasia.

Solo che lui lo voleva fare mezzo secolo prima e da solo… questo lo ha fatto diventare un “diverso” con i problemi di accettazione della “diversità” dell’Italia dei primi ‘900.

Dino ha sempre sofferto la sensazione dell’emarginazione. Prima come montanaro al liceo; poi con la famiglia; poi la sua aspirazione ad essere “puro artista” lo colloca quasi conseguentemente al margine della società.

Sofferto dalla famiglia, che aveva già dovuto sopportare un fratello del padre “matto di paese”. Soprattutto Fanny Lotti, sua madre, che di fronte alla “diversità” di Dino, si attacca morbosamente all’altro fratello e respinge il primogenito (da casa in piazza lo faceva passare da vie laterali), mentre fino a pochi anni prima lo presentava in società come un bambino di particolare intelligenza.

 

 

La genesi di Canti Orfici

 

Nel 1913 Campana ha 28 anni, ha subito più di un ricovero psichiatrico e varie carcerazioni, ha girato per il mondo fino in Argentina e fin da giovanissimo è istintivamente fuggito dalla sua famiglia e dalla gente del suo paese.

Si sente “puro artista” e nel maggio del 1913 scrive a Papini per invitarlo a rinnovare Lacerba: «La vostra speranza sia: fondare l’alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche, sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze… Per finire, il vostro giornale è monotono, molto monotono: l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici: come novità. Le cose che fanno la Primavera. In verità vi dico tutte queste cose non fanno la Primavera ma l'inverno». Tranchant come con D’Annunzio che lui chiama “il vate grammofono”.

In quell’anno mette insieme un manoscritto piuttosto consistente che, come si seppe molti anni dopo, aveva intitolato “Il più lungo giorno”. Un libro che per Campana rappresentava il riscatto dalla sua posizione, la prova vera del fatto che lui era un poeta e un puro artista. È questo il messaggio che intende dare al mondo che lo circonda. Alla sua famiglia; ai suoi compaesani; agli artisti italiani. E a se stesso.

Da una lettera a Prezzolini del 6 gennaio 1914: «Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all'esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che oggi è poco comune da noi».

Messo insieme il manoscritto pensò di rivolgersi a chi dirigeva in quel periodo la rivista letteraria Lacerba. Scese da Marradi a Firenze, facendo a piedi quasi 100 chilometri di montagna. La sua miseria è spaventosa: ha con sé un sacchetto di iuta dove tiene il manoscritto e pochi effetti personali; cammina scalzo per risparmiare le scarpe che gli pendono con un laccio da una spalla; generalmente digiuna e dorme all’asilo notturno. Ha una blusa leggera e pantaloni troppo corti di un tessuto incredibilmente leggero giallastro a fiorellini azzurri e rosei. Più “diverso” di così…

E così conciato incontra l’elegante Giovanni Papini, futurista, capo redattore de Lacerba e gli consegna il manoscritto. Papini commenta così quell’incontro: «Noi a quel tempo si preferiva di gran lunga i pazzi ai sani; sicchè si fece buon viso a lui e alle sue tormentate prose».

Campana invece ricorda: «Papini si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava ma che era 'molto molto' bene e mi invitò alle “Giubbe rosse” per la sera... per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l'avrebbe stampato. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all'asilo notturno ed era il giorno che facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato in mano di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per riaverlo senza ottenere risposta. Così mi decisi di riscriverlo a memoria». E La Chimera passa dal primo al secondo libro.

 

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
$Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

Papini in effetti aveva dato a leggere ad Ardengo Soffici questa prima stesura originale del manoscritto di Campana, e Soffici lo smarrì, probabilmente senza averlo neppure letto.

Il manoscritto andò perso e vide la stampa solo nel 1973 dopo essere stato ritrovato, nel 1971, tra le carte di Soffici, ironia della sorte infilato tra le pagine di un vocabolario di italiano. Il ritrovamento del manoscritto de “Il più lungo giorno” fu annunciato sul Corriere della sera del 17 giugno 1971 da Mario Luzi.

Comunque, la vita de “Il più lungo giorno” dal 1913 al 1971 è una vita di silenzio: Campana aveva raccolto in quel manoscritto con una grafia spesso inclinata, incerta a seconda del suo umore del momento, ma sempre leggibile le sue poesie. Niente macchine da scrivere e tanto meno, ça va sans dire, computer o altre diavolerie che a lui che riscrive un verso anche dieci, venti volte, sarebbero stati utilissimi.

 

 

Nascono i Canti Orfici

 

E così, smarrito il manoscritto, Campana si rifugia sui suoi monti e con uno sforzo di memoria incredibile, certamente con alcuni appunti che gli erano rimasti e con nuove ispirazioni, che rendono il secondo libro molto migliore del primo, scrive in due o tre mesi i Canti Orfici, uno dei libri di poesia e prosa più intriganti del ‘900 letterario italiano.

Così scrive Campana a Cecchi nel 1916: «Tre anni fa ero tornato all’Università di Bologna a fare il 4° anno di chimica pura. Quelli del mio paese che mi avevano sempre perseguitato con una infamia e una ferocia tutte lazzaronescamente italiane e clericali, risultando che io non ero altro che un avanzo di galera perché varie volte ero stato rimpatriato pidocchioso e stracciato (sfuggivo alle loro infamia) mi fecero fare dalla polizia una persecuzione che mi impedì di continuare. Dicevano che ero anarchico pericoloso, che volevo uccidere il re, i professori ecc. Provai a cambiare Università. Ma Genova fu peggio. Allora fuggii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i Canti Orfici includendo cose già fatte».

Campana torna a Marradi, ed è lì che nascerà il libro di cui questa sera ci interessiamo.

E qui entra in scena Luigi Bandini (Gigino) un amico di Dino Campana: «Caro Gigino, io mi trovo disperato e sparso per il mondo» gli scrive Dino «ti mando il manoscritto che spero testimoni che non ho meritato la mia sorte…». Zoppo e sofferente, docente di letteratura e poi bibliotecario per motivi di salute, primo tra tutti i critici e i sapienti della letteratura italiana, Luigi Bandini ha intuito il valore di Campana, a cui vuole molto bene, e lo ha aiutato in ogni modo. Il matto e lo zoppo diventano due personaggi marradesi, e attraverso il primo, bravissimo ragazzo, per un po’ sdoganano il secondo, insopportabile ragazzo.

Gigino capisce che se c’è una possibilità che i Canti vengano pubblicati è scriverli a macchina, perché le case editrici cestinerebbero un manoscritto senza neppure leggerlo. È Bandini che aiutato da suo padre, Augusto Bandini, presidente della Società Operaia di Marradi, un notabile del paese, convincerà il Sindaco Mughini a far scrivere i Canti Orfici con la macchina da scrivere del Comune, mettendo a disposizione un dipendente per battere sotto dettatura del poeta.

Così Campana entrerà in Comune provocando la curiosità dei suoi concittadini (la canaglia cattolica) e lo sconcerto degli impiegati comunali.

I Manoscritti andranno agli editori Vallecchi FI; Zanichelli BO; Treves MI; Rinfreschi PI; Gigino dirà che Dino: «Tra ripulse di editori e presunti tradimenti degli amici smaniava e inferociva». Sta di fatto che questi 4 grandi editori persero l’occasione di stampare quella che è diventata una delle opere poetiche più importanti del ‘900 italiano. «L’editoria italiana industria del cadavere» come la definisce Campana stesso.

 

Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quais)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.

 

Augusto Bandini suggerisce al figlio Gigino che a Marradi c’è un buon tipografo, Bruno Ravagli, che potrebbe accettare, dietro compenso di stampare i Canti di Campana. Gigino lo propone a Campana dicendogli che bisognerà solo trovare 80 marradesi (se ne troveranno solo 44) che diano 2,5 lire pagando anticipatamente una copia dei Canti Orfici.

Campana accetta. «Tu farai il cassiere» dice a Gigino «perché a me nessuno dei tuoi compaesani affiderebbe di certo 2 lire, ma neppure 5 soldi. Tu sei come loro (e qui un vigoroso sputo per terra) e ti stimano».

Dino cercherà soldi tra gli studenti e gli artisti di Firenze e Bologna che, sapendo che è in cerca di soldi, scappano da tutte le parti. Sarà Gigino a convincere il padre a dare la somma di anticipazione di 200 lire al tipografo, altrimenti i Canti Orfici non sarebbero mai stati stampati.

Il 7 giugno 1914 alla presenza dei testimoni Camillo Fabbroni e Luigi Bandini (Gigino) si stipula l’accordo con il tipografo Bruno Ravagli, in questo caso editore, che stamperà il libro Canti Orfici in mille copie entro il luglio 1916 e lo metterà in vendita al prezzo di £.2,50 a copia. 20 copie andranno di diritto all’autore.

Il costo complessivo della stampa sarà di £.650 che Ravagli dovrà avere dalle vendite.

Fatte salve le £.200 date dal Bandini, restano £.450 da mettere insieme con copie da vendere come compenso dello stampatore, cioè 180 copie a £.2,5.

Il resto andrebbe all’autore.

Dino affianca Ravagli durante la stampa del libro. Campana è un perfezionista e scrive e riscrive, cambia parole, versi e impaginazione. Ravagli è costretto a fare e rifare le pagine, fino ai fogli già pronti e piegati per essere consegnati al legatore.

I Canti Orfici sono costituiti da ventinove componimenti di cui quindici già presenti nella precedente stesura (Il più lungo giorno) e quattordici nuovi tra cui dieci in prosa che servono a riequilibrare il testo: quindici componimenti in versi e quattordici in prosa, con l'evidente intento di evidenziare un percorso.

Alla fine il libro sarà costruito con tre diverse qualità di carta e alla fine non avrà l’indice, perché Dino lo sacrificherà per inserire la frase: They were all torn and cover’d with the boy’s blood, “Essi erano tutti stracciati e ricoperti del sangue del fanciullo”.

Quanto sia importante per Campana questa dedica lo si può comprendere da ciò che il poeta stesso scrive ad Emilio Cecchi nel marzo del 1916: «Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of myself. La poesia è tra quelle della raccolta Foglie d’erba, che l’autore, guarda la coincidenza, fece pubblicare a sue spese, ed è una denuncia dell’uccisione di alcuni giovani e delle emarginazioni perpetrate dalla società borghese, razzista e bacchettona».

Campana quindi si identifica con i giovani massacrati a tradimento della poesia di Whitman e “il fanciullo coperto di sangue” è certamente lui. Viste il suo ricovero manicomiale e la sua prematura morte, un’intuizione del proprio destino. Dice Cecchi: «Egli dette un esempio di eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia testimoniata davvero col sangue».

E questa dedica è perfettamente in linea con il sottotitolo: Die Tragödie des letzen Germanen in Italien (La tragedia dell'ultimo Germano in Italia), che il socialista Ravagli accetterà di mettere, perché la dedica lo diverte e fa capire sulla pagina seguente la dedica: A Guglielmo Imperatore dei Germani l'autore dedica.

Lo stesso Campana farà capire il senso della frase del sottotitolo: «Ora io dissi die tragödie des lezten germanen in Italien mostrando di aver nel libro conservato la purezza del germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)».

La polizia s’interesserà a quel sottotitolo e a quella dedica e Campana impressionato da un’altra persecuzione poliziesca passa giorni e giorni nel retro di caffè e librerie a cancellare via la dedica per non essere confuso con la Germania a con coloro contro cui l’Italia stava entrando in guerra. Passerà ore grattare via quella dedica a Guglielmo e poi fuggirà a Pisa e in Sardegna.

Per quanto riguarda la parola orfismo, Campana si rifà, probabilmente, al capitolo "Orphée (Les mystères de Dyonysos)" di Edouard Schuré che in quei tempi si trovava in numerose edizioni francesi ed era alla portata di un vasto pubblico.

Ma con il termine orfico Campana poteva anche fare riferimento ad Orfeo, il poeta delle origini quale si immagina di essere Campana stesso in contrapposizione al clima "sfatto" della poesia del suo tempo.

Vi è poi nel contenuto del mistero un atteggiamento orfico, così come c'è nel comunicarlo. L'orfismo è un culto iniziatico e Campana pensa ad una poesia votata al sacrificio di comprensione di pochi eletti.

 

 

La vendita dei Canti Orfici e l’edizione del 1928

 

Dino Campana va a Firenze, a Torino e in giro per il mondo a vendere i suoi Canti. Lo fa davanti ai caffè, strappando le pagine che non ritiene adatte, rafforzando la sua leggenda di matto. Soprattutto alle fanciulle negherà pagine, rendendo concreto il suo monito: “le mie lettere sono fatte per essere bruciate…”.

 

Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

 

P.S. E così dimenticammo le rose.

 

Ma durante quelle vendite, quel nuovo folle peregrinare Campana comincia a pagare il peso di una lue contratta probabilmente a Genova nel 1912 e che gli ha provocato una leggera ischemia e una semiparalisi della parte destra, compreso un occhio che resta dilatato.

Nel 1916 in agosto incontra Sibilla Aleramo, che ha voluto conoscerlo dopo avere letto i suoi versi. Si amano, si insultano, si picchiano, o meglio Campana picchia Sibilla, si flagellano reciprocamente e poi si lasciano.

Racconta Primo Conti (1917): «Campana all’improvviso, ma con grande calma, prese il nostro vassoio, lo posò sopra una seggiola, montò sul tavolino e cominciò a parlare con un tono insolitamente tribunizio: “Guardate che qui siamo in piena guerra, questa guerra spaventosa, tragica… Sappiate che il colpevole della guerra soni io, che la causa di questa guerra è il mio amore con Sibilla Aleramo…”».

Nel 1917 ormai Dino Campana, oppresso dall’intero mondo e profondamente malato, alla fine è diventato veramente “matto”. E nel gennaio del 1918 è definitivamente internato in manicomio.

Nel 1928 l'editore Vallecchi pensò ad una ristampa dei Canti Orfici, senza nemmeno chiedere il permesso a Campana che in quel periodo era ricoverato in manicomio, e affidò la cura del progetto ad un giornalista e letterato, Bino Binazzi. Il libro venne pubblicato con il titolo Canti Orfici ed altre liriche e comprendeva, oltre i testi presenti nell'edizione del '14, alcune liriche del Campana apparse tra l'agosto del 1915 e il marzo 1917 su vari giornali e riviste.

Il Binazzi ne invia una copia a Dino Campana che dopo averlo ringraziato aggiunge: «A Marradi presso l'editore Ravagli si devono trovare ancora almeno cinquecento copie nella edizione originale: la Vallecchi varia qua e là non so perché: poco importa giacché è un compenso dovuto a la modernità de l'edizione senza dubbio. Rimasugli di versi, strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto. Ma che farne. Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili: variante vallecchiana. Passo lunghe ore pensando a la vanità del tutto». Frasi queste che fanno pensare e lasciano ancora aperte molte questioni sia sulla malattia mentale di Campana, sia sul manoscritto.

L’edizione che aveva aspettato tutta la vita lo lascia indifferente, anzi un po’ lo contraria. Scrive al fratello Manlio che l’operazione editoriale è frammentaria e sbagliata e lo prega di ricercare l’edizione di Marradi, perché altrimenti l’opera va persa.

Enrico Falqui nel 1941 ristampa i Canti Orfici riportandoli alla versione di Marradi e nel 1942 pubblica un volume a parte di inediti che rivela materiale ricchissimo, tra appunti e rielaborazioni, che nessuno sospettava.

Nel 1949, a cura di Franco Matacotta, apparve un Taccuino che conteneva tutto il materiale che era in possesso di Sibilla Aleramo e nel 1960 un Taccuinetto faentino a cura di Domenico De Robertis con la presentazione di Enrico Falqui e nel 1972 il Fascicolo marradese a cura di Federico Ravagli che raccoglieva altri testi manoscritti ritrovati nella casa della famiglia Campana a Marradi.

Nel 1973 vengono pubblicati i due volumi Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui con la presentazione di Mario Luzi, le note di Domenico De Robertis e Silvio Ramat arricchiti dal carteggio con Sibilla Aleramo.

 

 

La storia sembra rendere un po’ di giustizia al libro e al suo autore

 

Una copia dei Canti Orfici del 1914 edita da Ravagli è valutata sugli 8.000 euro.

I Canti Orfici hanno avuto più di 20 pubblicazioni.

Nella Biblioteca Marucelliana di Firenze è conservato il manoscritto de "Il più lungo giorno" e dal 20 marzo 2005 esso è a disposizione degli studiosi. A deciderlo è stato l'ultimo proprietario, l'Ente di Risparmio di Firenze, che nel 2004 lo acquistò per € 175.000 a un'asta di Christie's.

Sui Canti Orfici e su Dino Campana le pubblicazioni e i saggi critici sono praticamente incalcolabili; di famose e consultabili se ne contano più di mille.

Nel 1999, con il titolo Il più lungo giorno, è stato realizzato un film sulla vita del poeta diretto e sceneggiato da Roberto Riviello; interpreti Cavina e Battiston.

Nel 2002, Michele Placido ha diretto il film Un viaggio chiamato amore, basato sulla storia d’amore tra la poetessa Sibilla Aleramo e Dino Campana.

In un passo ("La notte"), nei Canti si trova la semplice e pura riproduzione di una proiezione cinematografica della quale Campana coglie il valore straniante al confronto della realtà. C'è una fiera e il poeta accompagna la donna amata in una sala cinematografica del tempo:

«Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un'irrealtà spettrale. C'erano dei panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose lagnose…. Noi guardavamo intorno: tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Ed io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepitoso della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo».

Nel 2003 a Macerata si è tenuto un Seminario internazionale su Campana e da allora Macerata è considerata e iscritta nell’albo delle “città campaniane”. Il titolo del Convegno e del libro che ne è uscito era: “O poesia tu più non tornerai”.

 

 

Conclusione

 

O poesia tu più non tornerai
Eleganza eleganza
Arco teso della bellezza.
La carne è stanca, s’annebbia il cervello, si stanca…

 

I cubi degli alti palazzi torreggiano
Minacciando enormi sull’erta ripida
Nell’ardore catastrofico.

 

Renato Pasqualetti


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276