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Giuseppina Rando. Un alito metafisico
15 Aprile 2015
 

Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male del mondo spirituale.

(Franz Kafka, Diari)

 

 

 

Un alito metafisico

 

L’album di famiglia custodiva una serie di istantanee. Della madre ve ne era una sola: teneva in braccio lei, Rosanna ancora bambina, avvolta in un vestitino di tulle bianco che metteva in risalto i riccioli neri e gli occhi che già d’ allora apparivano profondi e indagatori.

La bimba aveva appena tre anni. Era cresciuta con la nonna materna, Giulia, un’intellettuale solitaria, sempre chiusa nella sua biblioteca, avvolta in alone di mistero. Quante domande, anche da piccola, Rosanna si era posta su di lei, ma non a tutte, nel corso degli anni, aveva saputo dare convincenti risposte. Del padre, napoletano, avvocato, nessuna foto, né alcun ricordo, di lui portava solo il cognome: Boschi. Non era, da quanto diceva la nonna, un gran personaggio, anche se ricco e possedeva, al tempo in cui si era sposato con sua madre, una vasta proprietà nelle vicinanze di Sorrento e un palazzotto con altri beni in Toscana. “Un uomo dall’animo gretto, insignificante, di scarsa immaginazione”, così lo bollava Giulia. “Ha venduto tutto ed è partito per New York solo dopo cinque mesi di matrimonio, lasciando la mia dolce Lucia nello sconforto, sotto il peso della vita e di te che già bussavi alla sua porta”.

I racconti di Giulia erano molti: nel tempo hanno provocato nell’animo di Rosanna una serie di echi e di rifrangenze. Tra le figure immaginate e quelle reali, nella sua mente si era formata una piccola folla di personaggi e questo netto andirivieni tracciava un disegno che aveva qualcosa di ritmico, come una danza, della quale ha sempre subito il fascino. Lo stesso fascino della vita, considerata come qualcosa strettamente legata ai mutamenti della natura, e lei amava sia l’una che l’altra.

– Sono stati i tranquillanti ad uccidere tua madre! – diceva la nonna – e molte altre medicine.

– E perché? – chiedeva la nipote curiosa.

– Nella vita le medicine sono il conforto indispensabile…

– Conforto a che cosa?

– Ingenua domanda, Rosanna mia, e ti capisco perché tu sei giovane e non sei esperta di dolore umano. Tu ami la natura e pensi che la natura della quale partecipiamo sia pura, sana, incorruttibile. Non è così. La ragione e l’ingordigia umana distruggono ogni anelito, ogni sogno.

– Scusami, nonna, ma tu hai detto che le medicine per mia madre erano “conforto indispensabile”. Io vorrei sapere a quale dolore fosse indispensabile questo conforto. Se la condizione umana è già intrisa di questo dolore, perché chiedere alle medicine un surrogato di quel sogno che ciascuno di noi insegue e che resta, comunque, misterioso o irraggiungibile?

– Mi fa piacere sentirti argomentare in tal modo, Rosanna, ed è giusto che sia così; sei giovane. Pensi che il vivere sia una stranezza, ma no lo è. Tutti siamo curiosi, ci poniamo mille domande, alle quali vogliamo sempre e comunque dare delle risposte. Ma la vita, le cose reali si rinnovano continuamente e si ripetono, solo l’uomo non si ripete, non può tornare. Noi siamo affetti da una malattia che sta nel nostro stesso crescere, in questo continuo interrogarci.

– Di questa malattia sono affetta anch’io, nonna, ma non prenderò tranquillanti o altre medicine. Anzi questa malattia mi spinge in avanti, mi dà energia, mi fa amare la vita e il suo mistero.

Tra la vecchia Giulia e la giovane Rosanna le conversazioni avevano sempre questo tono.

Una delle tante cose che la nipote non comprendeva era come una donna di straordinaria personalità, come Giulia, in fondo conduceva una vita arida e solitaria, senza un sospiro, un palpito; amava solo perdersi in lunghe discussioni filosofiche, intricate e spesso gelide.

Sì, nonostante le fosse vissuta accanto per quasi trenta anni, la vita della nonna filosofa le appariva più segreta delle notti del mondo, una vita vissuta nel gelo silenzioso di una grande casa.

Nel gelo, nel labirinto di angoscianti pensieri trascorse quasi tutta la vita.

Anche la morte arrivò per lei nel silenzioso gelo di una notte di Gennaio.

 

Solo parecchi mesi dopo Rosanna decise di salire a “Villa Giulia” situata su un’alta collina non distante dalla città, dove sua madre, diceva sempre la nonna, amava rifugiarsi per lunghi periodi.

– A contatto con la natura Lucia si sentiva rinascere!

E fu al ritorno, da uno dei suoi soggiorni in campagna, che l’automobile guidata da Lucia precipitò da un tornante e si schiacciò sul greto del torrente sottostante. La disgrazia, se tale fu, e non, come qualcuno mormorò, un vero suicidio, accadde nel 1955, quando Rosanna aveva quattro anni.

Da ragazzina era andata lassù, diverse volte in estate, ma poi la casa fu definitivamente chiusa da Giulia con la motivazione: “intrisa di ricordi laceranti”.

Come era prevedibile Rosanna trovò la casa circondata da un groviglio di piante, l’edera ed altri rampicanti avevano coperto i balconi, il cancello e parte del muro di cinta. S’infilò degli stivali, trasse dal portabagagli un’accetta per abbattere quella giungla e con passo audace e cuore tremante affrontò quell’intrico di vegetazione.

L’abbandono di tanta vita le diede un fitta al cuore: dalle piante abbattute veniva su un alito metafisico, un palpito, l’essenza di una esistenza. Alcune piante erano morte, molte altre si erano salvate e continuavano a vivere ostinatamente solitarie.

Un fruscio e scorse un serpente, che come una saetta fuggì verso un covo più inaccessibile.

Altri rumori e crepitii susseguendosi provocarono in Rosanna molte emozioni, ma non paura.

Un coraggio che sorprese perfino se stessa, la spingeva a superare ogni ostacolo fino a portarla davanti la facciata della villa piena di crepe, la stessa iscrizione “Villa Giulia” (voluta dall’antica ava nella metà dell’Ottocento) scolpita sul cornicione era appena leggibile, mancante di pezzi, corrosa dal tempo e coperta da muschio. Un gatto sornione, infastidito, lentamente si allontanò.

Il portone era chiuso da una tavola inchiodata.

Facilmente Rosanna, con l’aiuto dell’accetta la schiodò; con una forte spinta riuscì ad aprire la porta, infradiciata. L’accolse uno spettacolo da brivido: ragnatele e polvere avevano creato forme mostruose, i mobili avevano smarrito l’antico splendore. Salì l’ampia scala che portava al piano superiore e subito cercò di aprire le finestre; riuscì ad aprirne due: l’ambiente assunse un aspetto surreale. Riconobbe subito, anche se ricoperto da un pesante telo, il pianoforte che era stato parte integrante della vita di sua madre.

Accanto il canterano settecentesco di radica di noce, bellissimo pur sotto quella coltre di polvere: aprì un cassetto e ne uscì un profumo indefinibile di un’altra vita, una vera essenza della memoria: dentro solo qualche bottiglietta vuota di profumo.

Da un bordo le parve di vedere una striscia di carta; era incastrata tra il legno e il raso verde del rivestimento, la tirò fuori, era una busta ingiallita con sopra una scritta: si leggeva male e si portò vicino la finestra: Alla mia adorata.

Con mano tremante aprì la busta e si trovò tra le mani un foglio scolorito, sgualcito con poche parole leggibili, vergate da una scrittura chiara di stampo maschile. L’umidità l’aveva rovinata, neanche la data o la località da dove fosse stata scritta la lettera si potevano leggere. Della firma poi erano chiare soltanto le ultime tre lettere: ldo. Avrebbe potuto essere Osvaldo o Gesualdo.

Nessuno dei personaggi che popolavano “le storie” narrate dalla nonna portava questi nomi.

O forse la lettera l’avrebbe scritta suo padre? Già, si chiamava Geraldo Boschi.

Ancora i personaggi si intrecciavano e si rifrangevano. Fuori il labirinto di piante, nella sua mente quello delle narrazioni, molte delle quali del tutto dimenticate. Stette immobile con quel foglio sottile tra le mani, con lo sguardo puntato sulle parole intatte. Come misteriosi punti di un rebus esse chiedevano una soluzione. – Fuga – morte – gelo.

Che la lettera fosse stata indirizzata alla nonna? E se le fosse appartenuta come avrebbe potuto dimenticarla? Nella mente qualcosa cominciò a muoversi. Le apparve un volto maschile, con una fitta chioma bionda e due splenditi occhi azzurri.

La mente di Rosanna cercava di estrarlo dalle anse del cervello, ma quel volto appariva e scompariva, si sovrapponeva ad altri volti conosciuti nella fanciullezza.

Una folata di vento sbatté la finestra con violenza e la scia di polvere che s’alzò le strappò il leggero foglio dalle mani. Vorticò su se stesso e poi come fosse divenuto un volatile, su… su… attraverso la finestra… verso il cielo.

Sembrava una stellina bianca tra le nuvole rosate del tramonto, felice di andare incontro allo spirito che l’aveva vergato.

 

Giuseppina Rando

 

 

Tratto da Nel segno, Pungitopo, Marina di Patti (Me), 2010 – Premio letterario “Città di Offida - Joyce Lussu” 2011 (Sesta edizione)


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