Arte e dintorni
Franco Patruno. Quel volto č la nostra storia (Speciale Pasqua, 2003) 
Una straordinaria riflessione sul “Volto Santo” nell’opera di Rouault
05 Aprile 2015
 

C'è una costante dell'arte che ha inteso indagare nell'abisso. Una sorta di notte oscura affascina, incita e pungola ad andare o, meglio, a scendere nelle profondità delle situazioni umane. Non è un viaggio morboso e nevrotico, quasi un prendere a pretesto la vocazione formale per la libera uscita delle proprie nevrosi malamente celate, ma una volontà di conoscere, di spezzare le catene a coloro che risultano marginali non per propensione, ma per esclusione patita dal puritano clima che decreta, con integristica fermezza, la bontà e la cattiveria. Molti esclusi sono i “cattivi” di questo mondo, sia nella loro attuale personale condizione che nel loro stato sociale di dimenticati. “Miserabili” li chiamava Hugo nel clima di riscatto che anche in Tolstoj assumeva il canto del cristianesimo utopico. Dostoevskij intensifica il proscenio di altre solitudini nelle quali è possibile essere penetrati dai conflitti di ogni memoria del sottosuolo, in quegli spazi della coscienza nei quali anche l'apparente follia, quasi un clown di purezza estrema e di limpida chiaroveggenza, assume i contorni dell'idiota che inquieta in proporzione agli spazi che gli vengon concessi per la sua apparente pazzia. Questa costante ha guidato mano e cuore di un grande della prima metà del Novecento: Georges Rouault. Comprendo che uno dei suoi maestri, Gustave Moreau, tutto preso dal suo simbolismo degli svelamenti del mistero, rimanesse sconvolto innanzi alla proposta di volti di pagliacci, prostitute e giudici iniqui che già avevano trovato indulgenza in certo post-Impressionismo e che diversa partecipata tristezza incontreranno nel Picasso del periodo “Bleu” e “Rosa”. Leon Bloy che, come scrive Maritain, “affettuosamente, ma senza mezzi termini, l'accusava di cadere in un'arte demoniaca, di compiacersi nella sporcizia e nel deforme”, aveva afferrato il genio di Rouault e ne temeva la perdita di confine. Afferrare il genio non è sempre ascoltare il cuore: George da sempre aveva quel sentimento che un tempo veniva declinato nei termini di “naturaliter cristiano”.

Già l'aiutare il padre nel restauro delle vetrate medievali l'aveva immerso nell'universo di una luce che proviene dall'interno o, più correttamente, che trae la propria trasfigurata cromaticità dalla fonte naturale del cielo piovoso, del sole splendente e della melodia malinconica di ogni tramonto. Quando affronterà, senza più abbandonarli, i temi biblici, creerà contorni non per chiudere l'immagine, ma per darle fisica e plastica consistenza. Certo, conchiudere è raccogliere come in un abbraccio d'insondabile tenerezza. Anche dalla lettura delle pagine ispirate, Rouault vivrà la polarità dello sguardo di Cristo su ogni umana indigenza (ed in questo, la serie del Miserere chiamerà a raccolta tutti i personaggi della sua prima indagine pittorica, nel ritmo splendidamente dolente del Salmo Cinquanta) e della contemplazione del Volto Santo ormai reso terragno dei colori della Palestina.

L'immagine che propongo è del 1946. Negli anni tra le due guerre, Rouault tratterà ripetutamente il tema della Passione di Cristo. La sua interpretazione dell'evento di salvezza è austera, lontana da ogni indulgenza descrittiva: il dolore, presente quanto mai, non è gridato, ma prossimo ad un'ipostasi non metafisica. Un'ipostasi, cioè, che, come nelle vetrate medievali, si lascia coinvolgere dalle suggestioni di una materia resa cromatica per connaturalità, per simbiosi che include il colore nel formarsi organico della terra splendente. In alcuni casi riappare la derisione, ed il Cristo viene esposto come il Pierrot più volte trattato negli anni giovanili. Il tema caro è quello dell'“Ecce Homo” che l'artista modula sulla fissità degli sguardi, come in certe esperienze antinaturalistiche della pittura bizantina. Ma siamo lontani dalla poetica dell'Ikona, perché tale fissità è quella dell'Espressionismo maturo, delle sintesi che Rouault recupera dalla formatività plastica del Romanico. Nel velo della Veronica lo splendore è interno all'immagine, quasi fosse possibile perpetuare lo sguardo d'amore di chi, crocifisso, già sperimenta il Corpo Risorto. Gli occhi dell'artista si fanno quelli di Giovanni che contempla la contemporaneità dell'ultimo grido e il totale abbandono già dal Padre glorificato. L'abisso si trasforma in stupore, l'Ora dell'essere elevato assume e raccoglie ogni elemento del creato ed ogni lacrima di disperazione. L'epifania del Volto si rivolge, viene incontro, è esposta dopo l'apparente sconfitta. Lo spazio e il tempo si contraggono quasi a riconciliare ogni frammento di storia divisa. Eppure la cronaca permane nelle terre racchiuse dallo sguardo, rappresa e coinvolta nei contorni d'abbraccio perenne. Quel Volto è la nostra storia. La pulsione è vitalmente trasfigurata senza nulla disperdere dei frammenti d'umanità piena. In questo senso, si presenta senza rappresentare. La Via Crucis era vero pellegrinaggio, ma verso una meta. È vero: l'attimo del passaggio (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) non era virtuale nè illusorio. Quel Volto è di vero uomo non nonostante fosse Dio, ma perché lo era nel mistero nascosto nei secoli. Ed ora rivelato. L'arte è un'approssimazione e non potrà mai proporsi neppure in veste quasi sacramentale; ma la sua logorante dolcezza è in questo offertorio della mano d'uomo. Se la bellezza salverà il mondo, ogni vero offertorio di forma e di colore comunque ne sarà vestigia.

 

Franco Patruno

(L'Osservatore romano, 20/04/2003)


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