Lo scaffale di Tellus
Riccardo Nencini: Oriana Fallaci. Moriṛ in piedi
14 Febbraio 2015
 

Riccardo Nencini

Oriana Fallaci

Morirò in piedi

Polistampa, 2010, pp. 80, € 6

 

Lei è la grande Oriana, lui Riccardo Nencini, scrittore e pubblicista, segretario nazionale del PS, che è stato deputato ed europarlamentare. Il luogo è Firenze in una calda giornata di giugno del 2006, pochi mesi prima della morte della Fallaci, avvenuta il 15 settembre. È tornata a Firenze da New York, dove si è trasferita dopo l’uscita di Insciallah, il libro testimone dei suoi giorni di Piazza dei Martiri, a Beirut, dove aveva sperimentato da vicino carneficine e sparatorie.

Sono amici. Lei lo ha mandato a chiamare. Parla con lui fino al tramonto. Di poche parole, riservata fino al rischio di apparire scostante, gli si svela nei suoi pensieri più profondi, senza indulgere alla autocompassione, consapevole e forte anche davanti all’ultimo passo, che sente vicino. È magra e sfinita dalle chemio, fuma con avidità e mangia poco o niente. “Sono alla fine Riccardo, e voglio morire a Firenze. Te l’avevo detto a New York. E ora ci siamo. Ma morirò in piedi, come Emily Brontë… Al mio funerale vorrei salve di cannone”.

Eppure Firenze non l’ha trattata bene da quando lei ha espresso il suo pensiero antislamico dopo la tragedia delle Torri Gemelle: “Il 12 giugno, a Bergamo, sono stata processata per reato d’opinione. Pardon: vilipendio all’Islam”. Convinta di un assunto che forse oggi molti più di allora condividerebbero con lei: “L’occidente è malato, ha perso la voglia di lottare, oppone valori vacui di fronte all’integralismo islamico. È grasso e loro hanno fame, non ha fede, e loro hanno una fede…la libertà si è trasformata in permissivismo”. A peggiorare le relazioni c’è stata anche una polemica contro il municipio e la curia fiorentina che troppo concedevano ai migranti somali.

Ma Firenze è la sua città, “qui sono nata” dice “qui sono sepolti i miei affetti, la mia gente. Qui ho iniziato a volere la libertà quando ancora non sapevo cosa fosse”.

Passano ricordi di una vita, a cominciare da quando, bambina, portava le bombe a mano ai partigiani, nascoste nel cuore dell’insalata. E poi i reportages da teatri di guerra, Vietnam, Messico, Libano, guerra del Golfo. Del resto, sono parole sue, “Io non so vivere, non avrei saputo vivere senza avventure”. E le interviste ai grandi, il suo coraggio di togliersi il chador davanti a Khomeini e di chiamarlo tiranno. E i suoi amori, conosciuti e non, le sue rinunce come donna. Con un malcelato orgoglio di ciò che ha costruito: “gli Italiani mi hanno letto come nessun’altra”.

Ma quale grande richiesta ha in serbo Oriana per Nencini? “Voglio morire nella torre dei Mannelli, guardando l’Arno da Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il Gruppo di Giustizia e Libertà”.

Oriana restò alcuni giorni ancora a Firenze, forse un paio di settimane – scrive Nencini. Dopo essersi commossa affacciandosi dalle finestre della torre dei Mannelli, visitò altre case accompagnata da un pugno di amici, sempre gli stessi.

Non fu possibile trovare la soluzione per lei, in poco tempo.

 

Marisa Cecchetti


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