Archeologia editoriale
Antonia Pozzi. Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938/ 10.
30 Dicembre 2014
 

Milano, 11 Gennaio 1933

 

Tullio caro,

da S.Martino siamo partiti soltanto ieri e fino all’ultimo momento ho sperato di poterla rivedere. Mi sembrava di avere ancora tante cose da dirLe: temevo che le mie povere parole non Le avessero fatto comprendere tutta la commozione che i suoi versi mi hanno suscitato nel cuore. Ma qui ho trovato la sua breve lettera e ne ho avuto un’infinita gioia: Lei ha compreso con quanto religioso amore, con quanta pienezza d’anima io ho accolto la rivelazione della sua poesia. E d’esser stata capita mi fa tanto bene. Lei non sa Tullio, Lei forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato, la “scoperta” meravigliosa di Lei. Io mi rammento ancora del giorno in cui trovai, su un banco di vecchi libri, le poesie di Eurialo De Michelis: era un po’ una mattina come questa, tutta d’azzurro pallido, con un sole mite; e tutta d’azzurro mi sentivo l’anima, ritornando con il libro amato; strani ricordi di scuola mi affioravano alla mente: dei vecchi umanisti che, nelle biblioteche dei conventi, scovavano gli antichi testi e poi, agli amici, scrivevano “fratello dilettissimo, ieri m’avvenne di ritrovare…” e della loro ricerca nutrivano la vita. Tanto più grande di quella è la mia gioia di oggi: perché il libro più bello del mondo finisce e dopo l’ultima pagina non si può chiedere che altre ne vengano aggiunte; ma il libro vivo di un’anima non finisce mai. Io spero, Tullio, che a queste prime pagine del Suo Libro che mi sono state mostrate, altre ne potrò aggiungere via via; e la mia vita, creda, mi dorrà meno, se lei vorrà infiorarla della sua poesia. Perché la poesia, non è vero, ha questo compito sublime; di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita. Quando tutto, ove siamo, è buio e ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire a noi grida, imprigionato, nel cuore.

Per chi ai suoi giorni non vede più che un colore di tramonto e sente, attraverso il suo cielo, salire l’estremo pallore; per chi ancora beve, con occhi allucinati, l’incanto delle cose, ma non sa, non può (perché è troppo tardi – perché non c’è più forza – perché tutto è stato bruciato, fino all’ultima stilla) tradurlo più in parole, ah, Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che sprigiona il nostro stesso canto inespresso.

Se lei verrà a trovarmi, parleremo di tante cose: delle sue montagne divine, dell’ora in cui si scolorano, della pineta viva, dei soldati morti che dormono in pace sotto il Cimon della Pala.

Io salii al cimitero di guerra in un pomeriggio nebbioso, dopo che lei era partito. Nevicava rado e leggero; tutta la bianca muta strada era per me, per me sola. Non aveva voci, neppure d’uccello, la cupa folla degli abeti: solo il mio cuore cantava, sul ritmo delle sue parole più tristi. Al cimitero, nessuno era andato da tempo: il sentiero era quasi intatto. Al cancello dovetti scavare con le mie mani la neve, per aprire: ma poi, all’interno, era così tesa e immacolata la coltre bianca, che non osai imprimerla del mio passo pesante; colsi da un pino un ramoscello in forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via. Le crode erano tutte pallide, come un gran volto che cali sul dolore degli occhi le palpebre. Ed ecco, il mio sfiorire non mi doleva più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose.

Così mi è rimasta nel cuore la Sua S.Martino… ne parleremo ancora a lungo, se lei non si dimenticherà di me e verrà un giorno a trovarmi.

Io mi rammento tutte le Sue promesse e sento che se saranno mantenute tanta luce pioverà, dentro la tenebra, a soccorrere la mia vita stanca.

Mi scriva presto Tullio: perdoni questa mia lunga trasognata lettera. E quello che le mie pallide parole non sanno dirle di buono, di grande, lo intenda, lo comprenda Lei, al di là d’ogni voce, nella Sua grande anima.

Con infinita gratitudine

La Sua Antonia Pozzi

 

 

 

Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938

A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino

Con un saggio di Marco Dalla Torre e postfazione di Tiziana Altea

Ancora, 2014, pp. 392, € 26,00

 

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