Diario di bordo
Karin Tennemar. La libertà devi prenderla 
Incontro con Dalal Jumaah
08 Novembre 2014
 

Freedom is something you have to take”, incontro con Dalal Jumaah, di Karin Tennemar per Kvinna till Kvinna, 5 novembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo [da Lunanuvola's Blog, 08/11/2014]. Dalal è la vice presidente dell’OWFI – Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq. Ha cominciato a lavorare per i diritti umani delle donne dopo aver divorziato dall’uomo che per 21 anni le ha inflitto ogni genere di violenze. Ancora oggi il suo corpo soffre per i postumi delle ingiurie subite. L’immagine di Dalal è di Karin Råghall.

 

 

«Volevo cominciare una nuova vita, basata sul mio proprio cuore e i miei propri pensieri. Il divorzio fu il primo passo sulla strada per la libertà. Quel che io ho passato è la prova che ogni donna può cominciare una nuova vita», dice Dalal Jumaah.

Il suo secondo marito fu una delle persone che incoraggiò Dalal ad entrare nell’OWFI: cominciò nel 2005 come volontaria, facendo visita alle donne in prigione. E’ qualcosa che continua a fare, ma oggi lavora anche come direttrice di uno dei rifugi dell’OWFI per le donne vittime di violenze ed abusi.

L’OWFI – Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq, agisce contro la violenza legata all’“onore” e il traffico di esseri umani, e dà sostegno alle donne di cui si è abusato e alle persone LGBT. L’organizzazione raccoglie costantemente informazioni su questi gruppi e sulla loro situazione, ma i dati sono per lo più ignorati dal governo iracheno.

Combattere la violenza contro le donne è la questione più importante per Dalal Jumaah, specialmente il fare in modo che gli uomini trattino meglio le loro moglie. E le condizioni delle donne in prigione la preoccupano particolarmente.

«La maggior parte delle detenute con cui sono in contatto sono state vittime di violenza. A volte sono finite dentro perché i loro mariti hanno scaricato sulle mogli i propri crimini. Conosco più di 40 donne in galera che hanno ricevuto la sentenza capitale e aspettano la decapitazione. Due di esse sono in cella con i loro bambini. È anche assai comune per le donne essere stuprate dalle guardie carcerarie».

Nel rifugio che Dalal dirige vi sono donne che fuggono dalla violenza delle famiglie o dei mariti, donne che vogliono smettere di essere prostitute e persone LGBT. Qualche mese fa, dei miliziani fecero irruzione in un bordello, uccidendo più di 30 persone: molte delle prostitute sopravvissute hanno cercato rifugio all’OWFI e Dalal ha aperto loro le porte.

La chiamata telefonica le arrivò una domenica di luglio: «Tu sei Dalal. Lavori per i diritti delle donne. Se non lasci il rifugio, sarai uccisa». L’uomo al telefono si presentò come ufficiale di polizia e accusò Dalal di dirigere un bordello e di dar ricetto a omosessuali e ragazze scappate di casa.

Dalal Jumaah tentò di spiegargli che la sua organizzazione aiuta le donne in condizioni di vulnerabilità e si offrì di dargli ulteriori informazioni, ma l’uomo non volle ascoltare: «Abbiamo documentazione sufficiente ad arrestarti», rispose, aggiungendo che la minaccia di morte veniva dal gruppo miliziano Asaib Ahl al Haq di Baghdad.

Quella sera, Dalal trasferì rapidamente le donne in altri luoghi e lasciò la propria casa. La polizia la chiamò di nuovo il giorno dopo e le diede dettagliate descrizioni del giardino e dell’edificio del rifugio.

«Mi diede anche informazioni sensibili su una delle donne che ci viveva. Allora capii che sapeva davvero molto. E aveva il potere di fare quel che gli pareva». Dopo numerose conversazioni, Dalal lo persuase a chiudere il caso, ma l’ufficiale disse che comunque non avrebbe potuto proteggerla dai miliziani. Allora, tramite una serie di contatti successivi e con un bel po’ di coraggio, Dalal riuscì ad organizzare un incontro con il loro capo. Coperta da capo a piedi in abiti neri, gli spiegò che l’OWFI aiuta le giovani donne a non prostituirsi e che riceve sostegno da organizzazioni internazionali. Gli disse anche, sinceramente, che il rifugio da loro preso di mira era ora la casa di rifugiati interni. Dalal pensa che la minaccia diretta sia diventata più debole, dopo il colloquio, ma i rischi connessi al lavoro dell’OWFI sono sempre alti.

«Quando questo accadde ero molto spaventata, ma l’ho tenuto per me. Se l’avessi mostrato alle mie colleghe, le avrei preoccupate ancora di più. Mi hanno sostenuta durante tutta la crisi e mi hanno accompagnata dovunque dovessi andare, perché era troppo pericoloso, per me, uscire da sola. Ancora oggi, non mi posso muovere liberamente».

Non era comunque la prima volta in cui Dalal Jumaah veniva minacciata per il suo lavoro in favore dei diritti umani delle donne. In precedenza, mentre stava per visitare una prigione femminile assieme ad un paio di giornalisti, tre motociclisti miliziani inseguirono la sua auto: uno prese fotografie, un altro le mostrò una pistola. L’autista premette l’acceleratore, se li lasciò alle spalle in una folle corsa e prese una strada diversa per arrivare alla prigione.

Quale pensi sia la ragione per cui le milizie hanno preso te e l’OWFI come bersagli?

In parte per il nome dell’organizzazione. Noi chiediamo libertà per le donne, il che loro interpretano come contrario ai valori tradizionali della società. La libertà delle donne è una minaccia per loro. Noi non stiamo zitte, ma dichiariamo apertamente i nostri obiettivi. La libertà è qualcosa che devi prendere da te stessa, non è qualcosa che ti sarà dato.

Se avessi il potere di cambiare una cosa, quale sarebbe?

Rimpiazzerei l’intero Ministero della Giustizia, che pullula di corruzione. Ho moltissime informazioni al proposito, che mi piacerebbe portare alla luce. Anche, rimpiazzerei la Corte Suprema. Tutti i giudici hanno partecipato a seminari sui diritti umani, ma quando giudicano i casi di traffico li cambiano e accusano le vittime di essere prostitute. Alcuni prendono mazzette. Non c’è giustizia in Iraq.


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