Lo scaffale di Tellus
Matteo Moca. “La ferocia” di Nicola Lagioia
26 Ottobre 2014
 

Comincio con una domanda scontata e formulata negli ultimi tempi milioni di volte: che fine ha fatto il romanzo? È ancora vivo? E, in maniera ancora più scontata, a che punto è il romanzo italiano? A quale punto ci troviamo? Chiunque segua un po' le novità in libreria, si sarà accorto che, questo 2014, è stato un anno ricco di sorprese per quanto riguarda il romanzo; come non notare infatti alcuni libri che hanno occupato gli scaffali per tanto tempo? E parlo di alcuni dei romanzi più belli dell'anno (e anche di alcuni degli ultimi anni): Cartongesso di Francesco Maino, Gemella H di Giorgio Falco e La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro (i primi due editi da Einaudi, il primo esordio assoluto e Premio Calvino 2013, il secondo Premio Lo Straniero 2014, il terzo per i tipi di Ponte alle Grazie, finalista al Premio Strega 2014). A questo raccolto un po' imprevisto ma senza dubbio ottimo, si è aggiunto La Ferocia di Nicola Lagioia (anch'esso edito da Einaudi, 411 pag.).

La ferocia è il terzo romanzo di Lagioia e scava un solco rispetto alle opere precedenti, riservandosi un luogo particolare, una terra di mezzo in cui si incrocia il romanzo storico, il romanzo biografico, il romanzo di formazione e nessuno di questi. Il contenitore che raccoglie tutto questo è uno stile che si può definire noir, la storia di una Bari e di tutta la Bari, di una Puglia che è lo specchio incrinato dell'Italia, il tutto osservato attraverso una lente di ingrandimento che indaga le sorti di una famiglia barese, una famiglia anch'essa metonimica come tante figure del romanzo, una parte per il tutto: due genitori e quattro fratelli per un affresco di uno spaccato di vita quantomai contemporaneo. La famiglia Salvemini è una famiglia il cui patriarca è un costruttore corrotto e corruttore, la madre Annamaria una statua su cui tutto passa sopra, Ruggero, il fratello maggiore, un noto chirurgo, Clara e Michele i veri protagonisti e Gioia la sorelle più piccola, dedita al culto della sorella morta attraverso Twitter (sì, Clara muore dopo le prime pagine, ma è come se vivesse per tutta la storia). Ed è sul rapporto tra Michele e Clara che si snodano le oltre 400 pagine del romanzo, un rapporto che (non) si consuma in un incesto incompleto (sia perché non accade, sia perché sono fratelli con madri diverse). È la storia di una generazione che vive la crisi e la storia contemporanea con sofferenza, la storia di una famiglia emblematicamente riunita solo all'interno della sua grande villa, la villa simbolo della ricchezza accumulata in maniere più o meno lecite, vissuta diversamente dai vari personaggi; i genitori la vivono come luogo di difesa, luogo in cui proteggersi dall'onesto mondo esterno, i figli, chi più chi meno, cercano di sottrarvisi, di starci il meno possibile.

E poi c'è la ferocia propriamente detta, quella che attraversa come un fiume silenzioso le pagine del romanzo, rendendosi udibile solo in quei momenti in cui l'uomo si ferma un momento per pensare e per riflettere. C'è sempre ma non sempre ci se ne accorge. E, direttamente collegato al tema della ferocia, ce n'è un altro, chiave privilegiata per la lettura del romanzo, quello dell'animalità. Ci sono tanti animali nel romanzo, una gatta, topi di fogna e gli uccelli. Proprio questi ultimi si ergono a simbolo assoluto: uccisi durante le loro magiche traiettorie, stramazzati al suolo a causa dell'opera dell'uomo che ha distrutto l'aria celeste e ora si sta occupando dei suoli (come la ditta Salvemini d'altronde). E allora dove sta la ferocia? Sta negli animali o sta nell'uomo? La differenza la dovrebbe fare il linguaggio e, più precisamente, la capacità di creare convenzioni sociali in cui (soprav)vivere; gli uomini, che di ferocia ne dovrebbero avere meno, possono condividere liberamente i loro pensieri ma, nonostante questo, restano vittime di una lotta senza esclusioni di colpi; gli animali invece, che di ferocia ne dovrebbero avere per tirare avanti, sono invece portatori di una sapienza innocente e pacifica, divenendo però vittime di altri, di chi dovrebbe essere (su una scala immaginaria) sopra di loro. E qua si chiude il cerchio, famiglia-animali-Michele. Michele è il figlio illegittimo di Vittorio, è un bastardo e un inadatto che per adattarsi necessita di cure psichiatriche perché si trova in una impossibile terra di mezzo: è figlio dei Salvemini, è dentro la famiglia e nelle sue dinamiche ma, allo stesso tempo, ne è ai margini, innaturalmente innestato in questa trama familiare. E allora è altrettanto scontato che sia proprio Clara, anche lei con la sua vita vissuta al limite tra l'insoddisfazione e la sazietà, tra la felicità e il baratro, ad accostarsi a Michele e a creare con lui un rapporto tra incompresi, un rifugio sicuro dalla bestialità umana, possibile solo nella loro unione. Scrittura meravigliosa quella di Lagioia, mezzo per costruire un affresco formidabile che si impone (sulla scia del più grande romanzo familiare di sempre, I Buddenbrok di Thomas Mann) come uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi anni.

 

Matteo Moca


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