Manuale Tellus
Maria Lanciotti. Bignamino di una cronaca non ancora storicizzata – 5
23 Settembre 2014
 

 

E qualcosa rimane, tra le pagine chiare

[e le pagine scure

e cancello il tuo nome dalla mia facciata
e confondo i miei alibi, e le tue ragioni
i miei alibi e le tue ragioni...
   

(Rimmel, Francesco de Gregori)

 

 

 

 

Tra il vecchio e il nuovo

Nel decennio delle grandi riforme tutto sembrava vecchio e da buttare dalla finestra, come si faceva una volta a Capodanno con le cose consumate o rotte. Quegli anni furono così turbolenti che poco se ne capiva mentre passavano, e così belli e feroci che solo a ripensarli prende un nodo alla gola e la voglia di tornare indietro per ricominciare e fare meglio.

Furono anni ricchi di bene e di male, di grandi possibilità e di sperperi di energie, spesso male indirizzate. Ma l’energia c’era, ce n’era tanta, ce n’era troppa, liberata d’un colpo dopo un accumulo durato troppo a lungo.

In quegli anni si tentò una diversa visione del mondo, con una fede non più riscontrabile in seguito.

C’era forte attrito tra il vecchio e il nuovo, così avviluppati e avversi da sprizzare scintille e provocare incendi: c’era chi tentava di mantenere vivo un conformismo logoro ma ancora bene incatramato e chi andava all’assalto per abbattere le ultime resistenze. E tanto sconvolgimento arrivava alle coscienze, mettendole in subbuglio.

A quei tempi ero giovane anch’io, ma di una giovinezza addomesticata che sembrava una vecchiaia precoce. Allora a trent’anni una donna pensava di aver “già detto tutto” – come si sentiva spesso ripetere da persone incapaci di vedere la donna oltre le sue mansioni quotidiane – e si preparava a vivere di ricordi, restando a completa disposizione delle necessità familiari. Ma tutto quel movimento attorno, tutto quel fermento, portava a riconsiderare l’esistenza, che non era fatta solo di doveri da assolvere.

La parola diritto non era stata insegnata alla mia generazione, mentre il senso del dovere ci era stato inculcato fin dalla più tenera età.

E poi in un turbine tutto si rimescola, e scopri il diritto di sognare e il dovere di lottare per realizzare i tuoi sogni. Ce lo insegnarono i giovani, che però a loro volta non avevano dimestichezza con la parola dovere, perché forse noi, per rifarci di una educazione a senso unico, avevamo ripetuto l’errore, ma al contrario.

 

 

E qualcosa rimane…

Gli anni ’70 furono tutti da vivere, nell’insieme: inevitabili come un febbrone di crescita, con tutta la sofferenza e i rischi del caso.

In quegli anni ci fu una produzione artistica straordinaria.

Tanta musica, i cantautori sbocciavano come rose a maggio, in una gara di bravura eccezionale. Troppi per nominarli tutti, tanti di loro sono ancora sulla breccia e altri furono riscoperti nel tempo, come Rino Gaetano, presto uscito drammaticamente dalla scena, che seppe raccontare l’Italia degli anni della tensione, delle P38 e il disagio degli emarginati con testi al vetriolo, rivestiti di un’ironia penetrante come uno stiletto. Attualissimo ancora oggi il suo primo singolo Il cielo è sempre più blu:

 

Chi vive in baracca

chi suda il salario

chi ama l’amore chi sogni di gloria

chi ruba pensioni

chi ha scarsa memoria…

 

E c’erano Francesco De Gregori, e Lucio Dalla, e Fabrizio De Andrè, e Francesco Guccini e la grande poesia di certi testi, un transito nel tempo che restituisce miti e memoria per un pianto di nostalgia. Da “Il vecchio e il Bambino” di Guccini:

 

E il vecchio diceva, guardando lontano:

Immagina questo coperto di grano,

immagina i frutti e immagina i fiori

e pensa alle voci e pensa ai colori

[…]

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,

e gli occhi guardavano cose mai viste

e poi disse al vecchio con voce sognante:

«Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!»


Fra i cantautori alcune donne, Maria Monti che negli anni ’60 aveva inciso vari album a carattere politico e femminista fra cui Le canzoni del no, sequestrato in tutta Italia perché conteneva la canzone “La marcia della pace” (scritta da Franco Fortini e Fausto Amodei) i cui versi “E se la Patria chiama, lasciala chiamare” furono giudicati sovversivi, in quanto invito all’obiezione di coscienza. E Giovanna Marini con i suoi canti di protesta e ballate tradizionali, che fondò nel ’75 la Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma:

 

Andavano col treno giù nel Meridione

per fare una grande manifestazione

il ventidue d’ottobre del settantadue

in curva il treno che pareva un balcone

quei balconi con le coperte per la processione…

 

Nacquero decine di gruppi musicali dai nomi immaginifici: Cugini di campagna, Il giardino dei semplici, Homo Sapiens, Matia Bazar, Nuovi Angeli, Profeti, Santo California, Le Orme, Premiata Forneria Marconi, Gli alunni del sole, I ribelli. E c’era il Banco del Mutuo Soccorso che ci fece dono, tra l’altro, di quel meraviglioso “Canto di primavera”:

 

La primavera è altro

che un cielo chiaro

è grandine veloce sui tuoi pensieri

arriva come il mare e non sai da dove.

 

E i Nomadi con la raccolta Io vagabondo:

 

Io un giorno crescerò

e nel cielo della vita volerò

ma un bimbo che ne sa

sempre azzurra non può essere l’età.

 

Tra i gruppi musicali stranieri non si possono non citare i Pink Floyd. La novità dei loro arrangiamenti, i travolgenti effetti sonori, la varietà delle tematiche, l’intensità dei testi. Da “Alexia”:

 

Se fossi un cigno, me ne andrei.

se fossi un treno, sarei in ritardo.

E se fossi un brav’uomo

parlerei con te

più spesso di quanto faccio.

 

E c’erano gli Inti Illimani, che dopo il golpe cileno di Pinochet nel ‘73 trovarono asilo politico in Italia e portarono alla celebrità il brano che era divenuto in tutto il mondo un inno di lotta:

 

El pueblo unido iamás será vencido,

el pueblo unido jamás será vencido!

 

E c’erano tutti i nomi che ci portiamo stampati dentro come il manifesto di una stagione irripetibile, a partire dai Cantacronache degli anni ’60. E qui, del gruppo di musicisti, letterati e poeti sorto a Torino nel ’57, vale riportare alcuni stralci di “Dove vola l’avvoltoio”, testo di Italo Calvino e musica di Sergio Liberovici, una canzone contro la guerra che per assonanza riporta, negli ultimi versi, a “La guerra di Piero” di De Andrè:

 

Un giorno nel mondo finita fu l’ultima guerra,

il cupo cannone si tacque e più non sparò,

e privo del triste suo cibo dall’arida terra,

un branco di neri avvoltoi si levò.

 

Dove vola l’avvoltoio?

avvoltoio vola via,

vola via dalla terra mia,

che è la terra dell’amor.

 

L’avvoltoio andò dal fiume

ed il fiume disse: «No,

avvoltoio vola via,

avvoltoio vola via.

 

Nella limpida corrente

ora scendon carpe e trote

non più i corpi dei soldati

che la fanno insanguinar.

 

In quegli anni ognuno aveva la sua colonna sonora in testa, legata a spezzoni di vita sofferta e sognante. In sottofondo Imagine di John Lennon, come una promessa da mantenere.

C’era tanta musica nell’aria in quegli anni e tanta voglia d’amore. Forse l’amore che c’era nell’aria in quegli anni non si era mai sentito prima con tanta violenza, un amore che azzannava al petto con una rabbia smisurata. Ancora vivo il sogno di una società giusta e paritaria, che non trovava però terreno dove attecchire.

Ma il nostro mondo in bianco e nero era infranto, e quello che appariva era un caleidoscopio irto di specchietti frastagliati e ingannevoli.

 

(prosegue)

 

 

Bignamino di una cronaca non ancora storicizzata5

(Tratto da Se tu mi chiedessi – storia e storie fra cronaca e memoria, UniversItalia 2013)


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